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Tommaso Di Brango Il primo soggiorno romano di Giacomo Leopardi

Il primo soggiorno romano di Giacomo Leopardi

La delusione provata da Giacomo Leopardi durante il suo primo soggiorno romano derivò, secondo molti studiosi, da un habitus mentale misantropico inculcatogli dal troppo lungo eremitaggio recanatese. Chi scrive, tuttavia, dubita della bontà di questa lettura, che anzi gli sembra viziata da quello stesso psicologismo con cui, in passato, si è tentato di ridurre il pensiero leopardiano a una semplice conseguenza dei malanni fisici patiti dal poeta-filosofo marchigiano.[1] Mi pare molto più interessante, invece, provare a leggere le lettere che Leopardi spedì da Roma nel 1822-23 come la testimonianza di un primo, embrionale affiorare di quella pratica culturale che, nel corso dell’Otto-Novecento, prenderà il nome di flânerie.
Pur non potendo, per molte ragioni,[2] essere assimilato a un Charles Baudelaire o a un Walter Benjamin, infatti, il poeta dell’Infinito fa emergere, in quelle missive, due elementi che saranno poi costanti nel modo di porsi dei flâneurs propriamente detti: a) uno sguardo che, per usare il lessico di Adorno, possiamo definire «micrologico»; b) una notevole attenzione per la solitudine e l’anonimato intese come elementi caratteristici della vita delle grandi città.

Un primo manifestarsi della «micrologia» leopardiana lo troviamo nella lettera con cui, il 29 novembre 1822, Giacomo intese rassicurare suo padre, reso ansioso dai pericoli che una città come Roma avrebbe potuto mettergli di fronte.[3] In essa, infatti, il futuro autore delle Operette morali affermò di recarsi nella Città Eterna per studiare i costumi dei suoi abitanti partendo “dal basso”, ovvero osservando le pratiche quotidiane di una società senz’altro più composita di quella conosciuta a Recanati: 

Ma perché, quanto è possibile all’amore, Ella stia coll’animo riposato sul conto mio, […] le ripeterò quello ch’io le dissi poco avanti di partire, cioè ch’io sono molto più ostinato che volubile, e molto più disprezzatore che ammiratore: e non ostante la poca pratica fatta nella conversazione degli uomini, pure mi riprometto (e in questa lusinga mi conferma anche una certa esperienza) di scoprire almeno una gran parte degli artifizi che s’adoperano per sedurre, ingannare, schernire e perdere i giovani e ogni sorta d’uomini.[4]

Ovviamente non era questo il solo obiettivo del soggiorno romano del giovane Leopardi, il quale si era lasciato alle spalle Recanati mosso anche dalla speranza di trovare un impiego nella Città Eterna. Tuttavia, sfogliando le altre lettere da egli scritte in questo periodo, si può osservare che il poeta dell’Infinito tenne effettivamente fede alle parole rivolte a Monaldo, operando – e in questo sta la sua «micrologia» – una lettura dello spirito di Roma a partire dall’osservazione della vita quotidiana dei suoi abitanti.
L’esito di quest’operazione non fu, come si è detto e come del resto è ampiamente noto, felice. Osservando il ménage familiare degli zii Antici, infatti, Leopardi concluse che la vita dei romani è caratterizzata da un individualismo fortemente egoistico («Ma qui, dove niuno si vuole incomodare (…) ciascheduno è incomodato da tutti e tutti da ciascuno»);[5] le funzioni religiose gli parvero più che altro degli spettacoli pubblici finalizzati all’intrattenimento dei presenti («Questa mattina (per dirvene una sola) ho sentito discorrere gravemente e lungamente sopra la buona voce di un prelato che cantò messa avanti ieri, e sopra la dignità del suo portamento nel fare questa funzione»);[6] i letterati gli risultarono caratterizzati da un asfittico classicismo erudito privo di autentica forza vitale («Quanto ai letterati, de’ quali Ella mi domanda, io n’ho veramente conosciuto pochi, e questi pochi m’hanno tolto la voglia di conoscerne altri. Tutti pretendono d’arrivare all’immortalità in carrozza, come i cattivi Cristiani al Paradiso. Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell’uomo è l’Antiquaria»);[7] le donne gli sembrarono gelide e assai meno disinibite di quel che si sarebbe aspettato («Io ho fatto e fo molti giri per Roma in compagnia di giovani molto belli e ben vestiti. Sono passato spesse volte, con loro, vicinissimo a donne giovani: le quali non hanno mai alzato gli occhi; e si vedeva manifestamente che ciò non era per modestia, ma per pienissima e abituale indifferenza e noncuranza: e tutte le donne che qui s’incontrano sono così»).[8]

Fu a partire da queste – e molte altre – osservazioni che Leopardi trasse le sue drastiche conclusioni, riassumibili in quanto scritto nella lettera alla sorella Paolina del 3 dicembre 1822:

Parlando sul serio, tenete per certissimo che il più stolido Recanatese ha una maggior dose di buon senso che il più savio e più grave Romano. Assicuratevi che la frivolezza di queste bestie passa i limiti del credibile. S’io vi volessi raccontare tutti i propositi ridicoli che servono di materia ai loro discorsi, e che sono i loro favoriti, non mi basterebbe un in-foglio.[9]

Va anche osservato, però, che, in queste missive, il grande recanatese non limitò il suo discorso alla sola città di Roma ma lo ampliò fino ad abbracciare, con esso, lo stile di vita proprio delle grandi città in quanto tali. Nella lettera al fratello Carlo del 6 dicembre 1822 – forse la più completa ed esaustiva tra quelle qui prese in esame -, infatti, Giacomo lanciò sì i suoi strali all’indirizzo di un’Urbe sprofondata nella noia («Lascio stare ch’io vedo la noia dipinta sul viso di tutti i mondani di Roma»),[10] ma tese a interpretare le cause di questa condizione come la logica conseguenza dello stile di vita tipico di qualsiasi città di grandi dimensioni:

In una grande città l’uomo vive senza nessunissimo rapporto a quello che lo circonda, perché la sfera è così grande, che l’individuo non la può riempire, non la può sentire intorno a sé, e quindi non v’ha nessun punto di contatto fra essa e lui. Da questo potete congetturare quanto maggiore e più terribile sia la noia che si prova in una grande città, di quella che si prova nelle città piccole: giacché l’indifferenza, quell’orribile passione, anzi spassione, dell’uomo, ha veramente e necessariamente la sua principal sede nelle città grandi, cioè nelle società molto estese. La facoltà sensitiva dell’uomo, in questi luoghi, si limita al solo vedere. Questa è l’unica sensazione degl’individui, che non si riflette in verun modo nell’interno.[11]

A parere di Leopardi, insomma, l’uomo metropolitano – e non solo il romano degli inizi dell’Ottocento –[12] è ridotto a spettatore di una vita a cui non prende parte («e lo spettacolo del quale v’è impossibile di far parte, v’annoia al secondo momento, per bellissimo che sia»)[13] e per questo motivo è anche un individuo solo, perso in una folla anonima e indifferente a quel che potrebbe offrirle, nella quale spiccano soltanto le figure degli uomini di potere:

Qualunque sia il pregio a cui voi pretendiate, o bellezza, o dottrina, o nobiltà, o ricchezza, o gioventù, in una città grande è tanta soprabbondanza di tutto questo, che non se ne fa caso veruno. Io vedo tuttogiorno uomini che riempirebbono Recanati di se medesimi, e di cui qui nessuno si cura. L’attirare gli occhi degli altri in una gran città è impresa disperata; e veramente queste tali città non son fatte se non per i monarchi, o per uomini tali che possano smisuratamente soverchiare a massima parte del genere umano in qualche loro pregio per lo più di fortuna, come ricchezza immensa, dignità vicina a quella di principe, o cose simili.[14]

Non sembra dunque impossibile affermare che, al cospetto di una Roma pur assai diversa dalle grandi metropoli nate dalla Rivoluzione industriale, Giacomo Leopardi abbia scorto le sembianze di quella che, ai suoi occhi, doveva apparire come una ancora abbozzata ma certamente riconoscibile modernità. Si consideri, a riprova di ciò, il fatto che, come ha mostrato Marco Dondero, molte osservazioni contenute nel Discorso sopra lo stato presente de’ costumi degl’Italiani – e dunque in uno scritto che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto contenere, tra le altre cose, un vero e proprio confronto critico con l’incedere del moderno –[15] sembrano provenire dalle lettere spedite dalla Città Eterna tra il novembre del 1822 e l’aprile dell’anno successivo.[16]
Il rapporto tra Leopardi e Roma non si esaurirà in quest’occasione. Il grande recanatese, infatti, tornerà nella Città Eterna in compagnia di Antonio Ranieri, soggiornandovi tra l’ottobre del 1831 e il marzo del ’32. Si tratterà, tuttavia, di un incontro decisamente meno importante del precedente, che può essere considerato una tappa assai significativa del suo itinerario filosofico e poetico.

© Tommaso Di Brango

 


[1] «Quando nel novembre del 1822 Leopardi poté dunque allontanarsi per la prima volta da casa, e intraprendere il sospirato viaggio a Roma, le sue idee sul “mondo” e  suoi “pericoli” (contro i quali lo aveva messo in guardia Monaldo) erano già ben costituite», M. Dondero, Leopardi e gli italiani – Ricerche sul «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani», Napoli, Liguori, 2000, p.39; «L’uscita [a Roma], peraltro sotto scorta e vigilata dal controllo dello zio, era tardiva e anche perciò profondamente deludente (…). L’isolamento, finora sofferto nell’eremitaggio del paese, era divenuto abito interiore e l’incontro con il mondo di fuori, tanto ansiosamente desiderato, finì per essere dolorosa conferma di un’invincibile inadattabilità alle relazioni sociali», G. Tellini, Leopardi, Roma, Salerno edizioni, 2001, p. 30. In merito alle (pretese) origini psico-patologiche del pensiero leopardiano vedi: M. L. Patrizi, Saggio psico-antropologico su Giacomo Leopardi e la sua famiglia, Torino, Bocca, 1896; Id., Fisiologia dell’arte leopardiana, in Id., Nell’estetica e nella scienza. Conferenze e polemiche, Palermo, Sandron, 1899, pp. 195-229; G. Sergi, Le origini psicologiche del pessimismo leopardiano, in «Nuova Antologia», 16 aprile 1898, pp. 577-603; Id., Leopardi al lume della scienza, Palermo, Sandron, 1899.
[2] La flânerie propriamente detta è praticata da un individuo di estrazione borghese che ama osservare la vita delle metropoli moderne: due requisiti assenti in Giacomo Leopardi, che invece era un aristocratico marchigiano intento a passeggiare per le vie di una città che viveva, essenzialmente, del proprio passato. Occorre inoltre considerare che il grande recanatese ha avuto, con gli spazi urbani, un rapporto molto più episodico di quelli intrattenuti da Baudelaire e Benjamin con le metropoli europee – e in particolar modo con Parigi – tra l’Otto e il Novecento. Sulla flânerie vedi G. Nuvolati, L’interpretazione dei luoghi. Flânerie come esperienza di vita, Firenze, Firenze University Press, 2013; sulla Roma dei primi decenni dell’Ottocento vedi la voce Roma, https://www.treccani.it/enciclopedia/roma/.
[3] «Abbiatevi cura, e guardatevi, come vi dissi, da ogni sorte di pericoli. Figlio mio, voi siete per la prima volta solo in mezzo al mondo; e questo mondo è più burrascoso e cattivo che non pensate. Gli scogli che appariscono, sono i meno pericolosi; ma non è facile il preservarsi dai nascosti», lettera di Monaldo a Giacomo Leopardi, 25 novembre 1822, in G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, vol. I, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 567.
[4] Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi, 29 novembre 1822, in G. Leopardi, Tutte le poesie, tutte le prose e lo “Zibaldone”, a cura di L. Felici-E. Trevi, Roma, Newton Compton Editori, 2010, p. 1224.  
[5] Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi, 31 dicembre 1822, ivi, p. 1231.
[6] Lettera di Giacomo a Paolina Leopardi, 3 dicembre 1822, ivi, p. 1224. Appare impressionante la singolare prossimità tra il giudizio espresso da Leopardi sulle funzioni religiose romane e quello formulato molti decenni dopo da Giovanni Verga a proposito del funerale tenutosi a Milano per l’anniversario della morte di Alessandro Manzoni: «Uno spettacolo teatrale, piuttosto che una mesta funzione religiosa, la chiesa stipata da una folla in gala sussurrante, agitantesi, sbirciantesi coll’occhialetto come in teatro», lettera di G. Verga alla madre, 24 maggio 1874, in Id., Lettere sparse, a cura di G. Finocchiaro Chimirri, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 62-63.  
[7] Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi, 9 dicembre 1822, ivi, p. 1226.
[8] Lettera di Giacomo a Carlo Leopardi, 6 dicembre 1822, ivi, pp. 1225-1226.
[9] Lettera di Giacomo a Paolina Leopardi, 3 dicembre 1822, ivi, p. 1224.
[10] Lettera di Giacomo a Carlo Leopardi, 6 dicembre 1822, ivi, p. 1225. Sull’importanza della voce ‘noia’ nel pensiero di Giacomo Leopardi vedi A. Tilgher, La filosofia di Leopardi, Torino, Aragno, 2018, pp. 58-61.
[11] Ibidem.
[12] «In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l’immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili», lettera di Giacomo a Carlo Leopardi, 20 febbraio 1823, ivi, p. 1239, corsivo mio. In questa missiva Giacomo Leopardi parla della sua visita alla tomba di Torquato Tasso. Si tratta di un momento importante del suo epistolario perché registra uno dei pochissimi momenti positivi del primo soggiorno romano e perché, in più passaggi, conferma l’immagine di un Leopardi «micrologicamente» attento a cogliere l’essenza della città a partire da dettagli apparentemente insignificanti. Si pensi, ad esempio, alla descrizione della strada che porta al sepolcro di Tasso, dove il poeta-filosofo marchigiano si sofferma su aspetti urbanistici e antropologici per sviluppare considerazioni di ordine morale: «Anche la strada che conduce a quel luogo prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. È tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de’ telai e d’altri tali istrumenti, e del canto delle donne e degli operai occupati al lavoro. […] Anche le fisionomie e le maniere della gente he s’incontra per quella via, hanno un non so che di più semplice e di più umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d’intrigo, d’impostura e d’inganno, come la massima parte di questa popolazione», ibidem. In proposito vedi W. Binni, La lettera del 20 febbraio 1823, in Id., La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1963, pp. 267-75.
[13] Lettera di Giacomo a Carlo Leopardi, 6 dicembre 1822, ivi, p. 1225.
[14] Ibidem.
[15] In questo breve e incompiuto trattato, infatti, Leopardi conduce un’accorata analisi antropologica incentrata sui costumi degli italiani senza che ciò che gli impedisca di svolgere acute considerazioni sull’Europa del suo tempo, sull’avanzare dello spirito dei Lumi e sulla nascita di una «società stretta» che presenta i tratti della moderna borghesia capitalistica. Per approfondimenti vedi G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, a cura di M. A. Rigoni, testo critico di M. Dondero, commento di G. Melchiori, Milano, Rizzoli, 1998; M. Dondero, Leopardi e gli italiani – Ricerche sul «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani», Napoli, Liguori, 2000.
[16] Cfr. M. Dondero, La società allo specchio, in Id., Leopardi e gli italiani, pp. 37-50. Per approfondimenti sul rapporto tra Giacomo Leopardi e la città di Roma vedi Leopardi e Roma, a cura di L. Trenti-F. Roscetti, Roma, Colombo, 1991; Leopardi a Roma, a cura di N. Bellucci-L. Trenti, Milano, Electa, 1998.

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