In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza.
Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)
Sebbene sia noto principalmente per i suoi romanzi e i suoi libri di viaggio, «Nooteboom è, forse soprattutto, poeta» (Fulvio Ferrari). Se il suo primo libro pubblicato è un romanzo (Philip e gli altri, 1955), tuttavia, ci informa sempre Ferrari, lo scrittore olandese «tiene a presentarsi soprattutto come poeta» e quindi «per quanto gli riguarda, la poesia viene comunque prima» («as far as he is concerned, however, poetry comes first») riferisce Daan Cartens. Nella scrittura di Nooteboom si distinguono i tratti peculiari e inconfondibili che la rendono una poesia di meditazione, di riflessione esistenziale e filosofica, che dialoga con i poeti del presente e del passato come Leopardi, Ungaretti e Montale; scrittura non meno nomade ed evocativa («La vita/ dovresti poterla/ ricordare/ come un viaggio all’estero» in Nulla) coniugata a una dimensione metafisica che lo avvicina a Wallace Stevens e a Borges; poetica in cui scopriamo il sottile e fragile confine fra immaginario e realtà, finzione e verità, un confine dove pure i luoghi assumono tratti immateriali e visionari. Se nella precedente antologia Luce ovunque, il «profumo di tempo infinito» viene colto tramite episodi di vita quotidiana e nello sguardo proteso a paesaggi caratteristici, nella sua ultima raccolta di poesie L’occhio del monaco il sogno è l’argomento principe; i versi sono stati scritti sull’isola di Schiermonnikoog (il nome vuol dire «l’isola dei monaci grigi») e rimandano ad un’altra isola, allegoria, per l’appunto, del mondo onirico. Ciascuna poesia riporta un sogno con un corredo di immagini ricorrenti, ma anche con una sequela di figure appartenenti al suo mondo interiore e affettivo (la madre, i fratelli) e a quello umanistico e intellettuale (Fedro, Socrate, Leonardo, Valery). Oltre queste figure, notevole è proprio l’innalzamento della parola poetica per raggiungere quegli attimi dove si annida il sovrannaturale. Gli elementi del faro, del mare, della notte, della luce nel buio, di queste figure evanescenti come fantasmi ricordano un po’ il dramma de Il marinaio di Pessoa in cui tre fanciulle vegliano un’amica morta; il timore che l’alba possa dissolvere la loro dimensione irreale (credono di essere frutto di un sogno) le conduce a raccontarsi dei sogni, in particolare di un marinaio naufrago su un’isola deserta che sogna una patria mai avuta. L’analogia fra le poesie di Nooteboom e il dramma pessoano risiede sia nell’uso di una lingua irreale, raffinata, distante e precisa insieme sia nell’atmosfera innalzata dell’isola-sogno visitata da navi di passaggio. Importante, nello scenario, è la presenza simbolica della luce, la luce del faro per il poeta olandese e le luci delle candele per il poeta portoghese. Se le candele “illuminano” l’istante in cui le vegliatrici discorrono in una stanza circolare (stanza che potrebbe rievocare la forma circolare di un faro) del loro stato di realtà o sogno, il faro di Nooteboom è la poesia stessa che irradia l’esistenza umana nei viaggi notturni della coscienza («il faro/ cadde con il suo raggio nella stanza» dice nella prima poesia della raccolta). L’illuminazione poetica sta a comunicare che, seppur il sogno “accade” in un attimo indefinito e la scrittura lo circoscrive, come dice la seconda vegliatrice del dramma, «nessun sogno finisce», ma continua nella dimensione della realtà e le cammina a fianco. Per questo se per Nooteboom viaggiare conduce a narrare, sognare porta a poetare e tenere fisso l’occhio del monaco sullo stato di trascendenza che vive in ognuno di noi e di cui il sogno è una delle varie espressioni.
Bibliografia in bustina
C. Nooteboom, L’occhio del monaco (traduzione di F. Ferrari), Torino, Einaudi, 2019.
C. Nooteboom, Luce ovunque 2012-1964 (traduzione di F. Ferrari), Torino, Einaudi, 2016.
F. Ferrari, Cees Nooteboom. La poesia come meditazione, apparso sulla rivista «Poesia», anno XXIV n° 258, Marzo 2011.
F. Pessoa, Il marinaio (traduzione di A. Tabucchi), Torino, Einaudi, 1988, 2018.