Cesare Pavese: la devozione al mito e alla morte
Per i settant’anni dalla sua scomparsa
Con il 2020 ricorrono i settant’anni dalla morte di Cesare Pavese, uno dei pilastri del canone italiano novecentesco. L’ecletticità di questo autore, che si è speso dalla prosa alla poesia, dal lavoro editoriale a quello di traduzione e così via, ci rende per sempre debitori come lettori, come studiosi di letteratura, ma soprattutto come uomini. Si tratta di un debito non solo nei confronti dell’opera di Pavese, che come tutti i più grandi scrittori ha cercato di rispondere alle questioni fondamentali dell’esistenza in nome e a servizio della collettività, ma anche nei confronti del suo fondamentale apporto al panorama culturale italiano. Gian Carlo Ferretti[i] nel profilo del Pavese editore (L’editore Cesare Pavese, 2017) ha tracciato un quadro sulla sua figura di intellettuale tuttofare al servizio della casa editrice Einaudi e della cultura dell’epoca, completando il ritratto fornitoci dalle biografie,[ii] che si sono concentrate soprattutto sulla vita e sulle opere. Senza i suoi sforzi e la sua passione avremmo scoperto molto più tardi la distinzione tra letteratura inglese e americana e, conseguentemente, gli autori del nuovo continente non avrebbero cominciato a circolare e a influenzare i nostri scrittori. Allo stesso modo il lavoro con Ernesto de Martino ha permesso, grazie alla Collana viola, di far entrare in Italia discipline quali l’etnologia e autori come Kerénji o Lévi-Bruhl fin prima sconosciuti o volutamente ignorati perché in disaccordo con le tendenze dell’epoca immerse tra Realismo e Idealismo. Lo stesso Ferretti però affianca l’instancabile operosità di Pavese alla sua vocazione al suicidio, da cui riuscì a distogliersi solo grazie al suo lavoro e solo fino a quel fatidico 27 agosto 1950. Omaggiare, ricordare e studiare la figura di quest’autore implica inevitabilmente che ci si imbatta nel suo pensiero costante alla morte. Farlo in questo anno di ricorrenza speciale ci ricorda però che l’intensità e l’amore con cui Pavese ha vissuto la sua vita sono rimasti qui, nelle sue pagine, più forti della morte. D’altra parte, esiste una seconda vocazione che ha accompagnato quasi tutta la vita e l’opera dell’autore e che si è fatta insistente e totalizzante a partire dagli anni ’40, il mito. Quest’ultimo assume certamente, nella realizzazione di una personale teoria del mito espressa in Feria d’agosto, l’aspetto di una poetica e di una maturità intellettuale frutto di approfondite letture che spaziano dai classici greci a Frazer alle interpretazioni sulla mitologia degli etnologi, ma a ben guardare prende il senso di una sconfitta inferta dalla vita e di un ripiegamento necessario in un mondo il più possibile lontano dalla realtà. Come ha scritto Natalia Ginzburg in uno dei ritratti più vicini e sinceri su Pavese (Ritratto di un amico, in Le piccole virtù): «Gli restava dunque da conquistare la realtà quotidiana; ma questa era proibita e imprendibile per lui che aveva, insieme, sete e ribrezzo; e così non poteva che guardarla da sconfinate lontananze». La Ginzburg ha saputo lasciarci un commento con la grazia e l’obbiettività di un’amica che aveva compreso l’impossibilità di penetrare dentro il groviglio dell’uomo Pavese, prima ancora che dello scrittore. Come ci riporta, egli non è mai riuscito a conquistare la realtà quotidiana, chiudendosi in una solitudine e incastrandosi in quel “pantano dell’anima” da cui nessuno ha potuto salvarlo.
Fin dalle lettere a partire dal 1926 (Pavese ha diciotto anni) e dalle prime poesie giovanili[iii] emerge il pensiero della morte, che lo tormenta e che si affianca come un binomio inscindibile alla vita e al desiderio di amore. «Mi strugge l’anima perdutamente/ il desiderio di una donna viva;/ spirito e carne»[iv] e «Nella notte che l’ultima illusione/ e i timori m’avranno abbandonato/ e me l’appoggerò contro una tempia/ per spaccarmi il cervello»[v] (si fa qui riferimento al pensiero di suicidio in seguito alla perdita di un amico e compagno di scuola che si era tolto la vita con una rivoltella). E ancora si vedono animarsi queste due forze: «Così vivo/ triste nei lunghi giorni… eppure a tratti/ mi sento traboccare di una vita/ caldissima, potente»,[vi] «Mi atterrisce il pensiero che io pure/ dovrò un giorno lasciare questa terra/ dove i dolori stessi mi son cari/ poiché tento di renderli nell’arte», e poi «Quando più riardo e più deliro, oh, allora/ mi si schianti una vena accanto al cuore/ e soffochi così, senza rimpianto».[vii]
Proprio le delusioni d’amore – quell’amore che Pavese ha sempre inseguito e che sempre gli è sfuggito – contribuiranno in maniera decisiva ad allontanarlo progressivamente dalla realtà e dalla vita. Già con Lavorare stanca e con i primi racconti Pavese dichiara l’intento di volersi “salvare dal naturalismo”,[viii] cercando una dimensione e una scrittura che vadano nella direzione del simbolo e poi del mito, valorizzando l’irrazionale. L’esperienza del confino a Brancaleone calabro nel 1935 risulta determinante per la svolta verso il simbolismo. La lontananza dalle sue colline langarole e la vicinanza con un elemento estraneo, il mare, gli permettono di percepire questi due paesaggi come oggetti-liminari che, nel loro impedire la vista dell’altrove, propiziano leopardianamente l’accesso a un infinito ancora sconosciuto e che gli si rivelerà con il mito.[ix] Il ritorno da Brancaleone significa anche apprendere che Tina Pizzardo, la donna amata ricordata con l’appellativo di “la donna con la voce roca”, se n’è andata sposandosi con un altro uomo. La dura delusione di questi anni si presenta appunto come una sconfitta inferta dalla vita, cui solo il ripiegamento nella scrittura sembra poterlo salvare.
La teoria del mito elaborata negli anni ’40 risulta infatti una nuova possibilità di riscatto, che sarà ancora una volta disattesa e non lascerà spazio che alla morte. Ben presto Pavese si accorge che lo sforzo poetico di “ridurre a chiarezza” il mito risulta impossibile e che il ruolo dato alla scrittura, quello di portare nel logos l’irrazionale mitico, non può sussistere. Come scrive Jesi, “se il mito, a opera conclusa, non è più accessibile, sola accessibile resta la morte, unica depositaria dei miti”[x] là dove penetrare il mito, che “vive di fede”, comporta inevitabilmente la sua distruzione. I dialoghi con Leucò rappresentano il più complesso tentativo di mitopoiesi, attraverso cui il mito classico viene utilizzato come strumento discorsivo per parlare metaforicamente di tematiche universali, quali il destino e, ancora, la morte.[xi] Nell’opera non sono pochi i personaggi mitologici riconducibili alla figura di Pavese. In Schiuma d’onda l’autore si cela dietro a Saffo, poetessa che incarna la devozione alla morte e l’impossibilità di eludere il destino con il proprio canto. Qui si ritrova la scelta del suicidio di Pavese, così come l’incapacità di accettare il quotidiano. Inoltre, la poesia di Saffo, come quella di Pavese a partire dagli anni ‘40, è concepita come uno strumento che penetri le profondità dell’esistenza – l’amore, il destino, la morte – fino a spiegarla. In L’inconsolabile riporta una variante meno nota del mito di Orfeo secondo cui egli si sarebbe voltato consapevolmente, scegliendo di perdere Euridice. In risposta a Kerényi, che in Gli dei e gli eroi della Grecia si chiede perché Orfeo si sia voltato, Pavese suggerisce che la sua discesa nell’Ade non fu per riprendere Euridice ma per cercare se stesso. In tal senso Orfeo rappresenta la poesia, mentre Euridice il mito. Come suggerisce giustamente Patrizia D’Arrigo,[xii] “Orfeo è la poesia che cerca di razionalizzare il mito” e in questo si trova l’alter ego di Pavese.
L’ultimo romanzo, La luna e i falò, è anche l’ultimo tentativo di salvarsi nel mito dell’infanzia. Anguilla torna dopo la guerra ai luoghi langaroli dove è nato per ricongiungersi con le proprie origini e con la memoria dell’infanzia. Tuttavia, il viaggio assume progressivamente le sembianze di una lacerante presa di coscienza della distruzione che ha dominato sulle sue colline, dove non esiste più niente di quel mondo passato. Con le poesie di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, apparse postume, ritorna il tema di amore e morte così come nelle prime poesie giovanili ma questa volta segnano un addio definitivo. Dedicate all’attrice americana Constance Dowling, vanno insieme ad alcune lettere scritte alla donna in cui si legge: «Carissima, non sono più in animo di scrivere poesie. Le poesie sono venute con te e se ne vanno con te. Questa l’ho scritta qualche pomeriggio fa, durante le lunghe ore all’Hotel in cui ti aspettavo, esitando, di chiamarti. Perdonate la tristezza, ma con te ero anche triste (…)».[xiii] Con l’impossibilità di rivivere il mito dell’infanzia e le ultime poesie di congedo si consuma l’ultimo atto tra la terra e la morte.
© Sara Vergari
[i] G.C. Ferretti, L’editore Cesare Pavese, Torino, Einaudi, 2017.
[ii] B. Alterocca, Pavese dopo un quarto di secolo, 1975; R. Gigliucci, Cesare Pavese, 2001; D. Lajolo, Il vizio assurdo, 1978; L. Mondo, Quell’antico ragazzo. Storia di Cesare Pavese, 2006.
[iii] Si fa riferimento alle poesie pubblicate da D. Lajolo in Il vizio assurdo e poi confluite nella sezione “Prima di Lavorare stanca” in Poesie.
[iv] Mi strugge l’anima perdutamente, in D. Lajolo, pp. 64-5.
[v] Sono andato una sera di dicembre, ivi, pp. 75-6.
[vi] Logoro, disilluso, disperato, ivi, p. 65.
[vii] Mi atterrisce il pensiero che io pure, ivi, p. 85.
[viii] Scrive nel Diario: la prima intuizione dell’immagine motivo del racconto, escogitata per salvarti dal naturalismo. (Il mestiere di vivere, 19 novembre 1939, p. 163).
[ix] A tal proposito si veda E. Gioanola, La strada del salto nel vuoto, in Cesare Pavese tra cinema e letteratura, Rubbettino, 2011.
[x] F. Jesi, Cesare Pavese. Il mito e la scienza del mito, in Letteratura e mito, Einaudi, 2002.
[xi] Per lo studio dell’utilizzo del mito nei Dialoghi con Leucò si veda B. Van den Bossche, Nulla è veramente accaduto. Strategie discorsive del mito nell’opera di Cesare Pavese, Franco Cesati, 2001.
[xii] P. D’Arrigo, Mito e modernità nei Dialoghi con Leucò, in Tenuta C., Modernità tra arcaico e mito, XI Congresso nazionale dell’ADI.
[xiii] Lettere, 17 aprile 1950.