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Remo Rapino e il figlio del Novecento: “Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” (rec. di G. Bocchio)

Remo RapinoVita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio
Minimum Fax, 2019

Recensione a cura di Giulia Bocchio

 

Una serie di riconoscimenti e menzioni: candidato al Premio Strega, finalista al Premio Campiello, vincitore del premio Cielo D’Alcamo per il miglior excipit, Bonfiglio Liborio può per una volta sentirsi dire “Libbò abbiamo vinto”.
Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio scritto da Remo Rapino, edito da Minimum Fax, è un romanzo che racconta il Novecento italiano e lo attraversa insieme a un uomo figlio delle circostanze, il cui punto di vista inedito e umano traccia i profili di un’Italia che oggi sembra sbiadita, un’Italia reduce dalle guerre, un’Italia che sa di miseria e di nascente industria.
Bonfiglio Liborio, il narratore, è un cocciamatte, ovvero quello strambo del paese, quello diverso, quello che tutti scherniscono e sottovalutano.
Liborio è un anziano che racconta per iscritto la sua versione dei fatti, ovvero la sua intera vita a partire dalla notte della sua nascita, avvenuta nel 1926, durante un apocalittico temporale, piovuto sulla terra insieme ai segni neri.
Queste non sono che le disgrazie, o meglio, le (dis)avventure di un Liborio che possiede per natura una lucidità così ingenua da essere vera e leale in maniera tanto disarmante quanto acuta. E quindi salvifica.
La cronaca esilarante della sua esistenza è fatta di ricordi, aneddoti, personaggi e riflessioni che hanno metaforicamente il suono di una banda, perché la sinfonia grammaticale (sì, grammaticale, dal momento che lingua e sintassi si adattano perfettamente al protagonista) di questo romanzo è una sfilata di suoni e strumenti al pari di quella banda di paese tanto amata da Bonfiglio Liborio.
La giovinezza del protagonista è una giovinezza che ricorda il racconto dei nonni, di quegli uomini e di quelle donne vissuti in anni semplici, eppure così complessi e fondamentali per le generazioni venute dopo.
Oltre ottant’anni di storia piena di fatti ed eventi epocali; storia piena di caratteristiche che forgiano le orme di un passato non senza voragini, non senza contraddizioni: dalla Seconda Guerra mondiale ai partigiani, passando per il servizio di leva, le case chiuse, i professori antifascisti boicottati dal regime (il mitico maestro Cianfarra Romeo sarà fra questi), la nascita delle fabbriche e il loro declino, la grande città, Milano, i sindacalisti in piazza e l’impegno politico… tutto questo è ripercorso in un flusso continuo di riflessioni da Liborio stesso, che, pur essendo testimone della storia, semplicemente la vive così come viene, chiamando tutti per cognome-nome.
C’è in questo romanzo la responsabilità della prima persona, una prima persona singolare, quella di Libbò, che senza la precisione di uno storico né le pretese di un sociologo, con il linguaggio di chi parla a sé stesso allo specchio oppure a un amico, riferisce l’Italia agli italiani, senza fronzoli, senza vanità.
La potenza di questa storia è tutta nel linguaggio, nel modo di dire le cose: inedito, diverso, si potrebbe dire valoroso; la prosa che Remo Rapino sceglie è semplice, come il pensiero di Liborio, eppure estremamente complessa, definita “storta”, ma che alla fine segue il dritto binario del coraggio e dell’autenticità.