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Cristò, “La meravigliosa lampada di Paolo Lunare”. Lettura di Giuseppe Ceddìa

Cristò, La meravigliosa lampada di Paolo Lunare
TerraRossa 2019

«L’ultima prova narrativa del barese Cristò è una
novella surreal-gotica che non perde di vista la
lezione di alcuni autori del Novecento italiano.»
(Giuseppe Ceddìa)

 

Anni fa, in un saggio presente su quella monumentale opera in più volumi, curata da Franco Moretti per Einaudi, ossia Il Romanzo, Alberto Asor Rosa sentenziò, come sempre acutamente, un audace e importante assunto, ossia che l’Italia più che la patria del romanzo è (o è stata) quella della novella. Come dargli torto del resto? Partendo da Boccaccio, passando per Basile, arrivando poi all’Otto e Novecento, la novella non ha mai smesso di affascinare gli scrittori. E forse non è un caso che Manzoni, autore del più importante romanzo italiano (il quale, seppur in maniera mal temperata, voleva assurgere a ruolo di esempio di Romanticismo italiano) di novelle non ne abbia mai scritte.
Non è certamente questo luogo consono a un’eventuale disamina e/o diatriba riguardo i generi letterari, una cosa però è certa, il racconto o la novella (in cui nella seconda vediamo una diretta discendenza dalla tradizione orale, quella che Walter Benjamin vedeva ormai schiacciata dall’hegeliana “moderna epopea borghese” del romanzo da un lato, dai giornali e dal successo della stampa dall’altro) sempre hanno attratto gli scrittori, la forma breve ha sempre destato negli animi la voglia di rapportarsi a una narrazione di respiro più ridotto, non per questo meno adusa a essere considerata intellettualmente elevata. Basterebbe ricordare quello che sancì un maestro della short-story (come veniva chiamata in America), ossia Edgar Allan Poe, quando parlava di ‘effetto in una sola seduta’, quello – in sostanza – che un buon racconto e una buona novella dovevano suscitare e, di conseguenza, ottenere nel e dal fruitore.
Alla sua sesta opera narrativa il barese Cristò si cimenta con la novella, più propriamente con la novella di stampo surreal-fantastico-gotico tipica del Novecento italiano; difficile non scorgere tra le pieghe del libro gli spiriti di Pirandello, di Buzzati, dell’enorme Tommaso Landolfi. Il testo, edito da TerraRossa, si intitola La meravigliosa lampada di Paolo Lunare; anche nel titolo come non scorgere un dichiarato omaggio a quel meraviglioso romanzo di Landolfi del 1939, appunto La pietra lunare? da qui anche il nome del personaggio femminile Petra che accompagna Paolo, il protagonista, nelle sue peregrinazioni dell’anima, nelle sue scoperte, nella sua vita dicotomica che si muove tra i vivi e i morti.
Al centro della novella, però, vi è una riflessione assai pungente e non poco sposabile ai contesti odierni di coppia, una riflessione sul concetto di menzogna. Esistono le sane bugie a fin di bene? È giusto dirle? E quando? Oppure la verità deve sempre regnar sovrana, a costo anche di perdere qualcuno o qualcosa che si ama profondamente? Quesiti non semplici, che la novella di Cristò dipana su un substrato di illusioni, giochi mentali, macchine che permettono di vedere quello che era, creazioni di Paolo Lunare, nomen-omen in questo caso di un sortilegio tra il serio e il burlesco, tra il realismo e il (sur)realismo (e qui è Landolfi più che Buzzati), ma anche un estremo e moderno tentativo di rifarsi a quel gioco delle parti, a quell’umorismo pirandelliano che tra avvertimento e sentimento del contrario sprona il lettore alla riflessione sulla tragicomica realtà che vive e su quello che gli altri vedono.
Ma è ancora l’amore il perno sul quale si avvitano le vicende, le emozioni, le creazioni che permeano la novella di Cristò, un amore innocente ma al contempo egoista, un amore che rischia anche laddove l’uomo non dovrebbe osare (ma è proprio questa la sfida del fantastico, scrivere quello che si vorrebbe fosse). Se volessimo rifarci alle categorie di Todorov dovremmo dire che questa è una novella facente parte del genere “meraviglioso” (in quanto l’elemento soprannaturale è accettato, esiste, i protagonisti si rapportano a esso), dunque né fantastico (dove vi è l’esitazione del lettore) né “strano” (nel quale il soprannaturale è razionalmente spiegato).
Eppure, discostandoci dalle influenze, dai generi, ecc. si può dire che la novella funzioni, rende il lettore partecipe nella giusta misura (spesso il troppo storpia), non ha certo il largo respiro dell’opera precedente di Cristò (d’altra parte quello era un romanzo) ma nemmeno tende al bozzetto, è davvero una novella che riassume – a tratti – la produzione otto-novecentesca del genere in Italia, con un occhio di favore, come suddetto, ai tre mostri sacri.
A parte gli omaggi sparsi qua e là tra le pagine, resta da dire cosa? Che di Buzzati c’è l’ingenuità amorosa e tremendamente e romanticamente colpevole, di Pirandello la traslazione tra menzogna e omissione, gli innumerevoli specchi e l’occhio che guarda, di Landolfi il gioco (sur)reale e cinico di una realtà che vorremmo diversa e per questo la modelliamo oniricamente a nostro piacimento. C’è un neo? Sì. Credo che ci sia una sorta di fretta di chiudere. Dopo una prima parte ben confezionata, in cui gli eventi si susseguono in un iter coerentemente dosato, nel finale sembra quasi che lo scrittore voglia subito gettarsi a capofitto nelle pieghe della conclusione, senza quel bell’armamentario narrativo della prima parte, ma anche oltre, della composizione.
Cosa non facile la forma breve, d’altra parte Pirandello, Buzzati e Landolfi non li incontriamo a ogni angolo di strada. A prescindere da ciò, Cristò scrive un libro da leggere, soprattutto per il coraggio di cimentarsi in questo genere (ormai così poco battuto) ma anche perché narra una storia che sfido chiunque a negare di aver voluto vivere, almeno per una volta.

 


Giuseppe Ceddia (Bari, 1977), Dottore di Ricerca in Italianistica. Ha curato per i tipi di Stilo l’antologia L’Epifania dell’Orrore. Novelle gotiche italiane. Suoi contributi sono sui siti Poetarumsilva, Carmilla online, Sul Romanzo, e sulla rivista «incroci» (Adda).