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Bustine di zucchero #37: Gesualdo Bufalino

In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza.
Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)

Bufalino

Dal taglio icastico e sontuoso tipico dell’opera bufaliniana affiorano due fra i suoi più vivaci contrassegni: la figura dell’ossimoro (vedi L’amaro miele, Argo il cieco, Tommaso e il fotografo cieco per citare dei titoli) e l’impianto barocco che lo stesso Bufalino precisò «barocco borrominiano». Per questo scrittore dal dettato anticheggiante e colto da cui possiamo riesumare citazioni occultate qua e là, ex-voto e segnali di una curiosità mai paga e di una costante iperletterarietà, va ricordato che l’iniziazione è poetica, alla maniera di un «lungo e segreto tirocinio» (Francesca Caputo), dapprima murato negli echi della sua coscienza, che vide breve e parziale luce su rivista fra il 1946 e il 1948. Leggendo L’amaro miele, e confrontandolo con Diceria dell’untore, romanzo dalla «prosa satura di aromi poetici» (Giovanni Tesio), notiamo alcuni dei temi del primo che si riverberano nel secondo; addirittura il romanzo, alla sua iniziale stesura, riportava una poesia a ogni inizio di capitolo, e furono le poesie a confluire, insieme ad altre, nella raccolta, pubblicata dopo Diceria, ma scritte prima di questa (le poesie risalgono principalmente al periodo 1944-1954, mentre Diceria fu abbozzato nel 1950). A parte i rimandi cronologici da poesia a prosa, il Bufalino de L’amaro miele consegna nei versi la voce sua più interna, voce di confessione e denudamento, monologo allo specchio, «interrogazione al buio»; egli scrittore “umido” – contrariamente a Sciascia, suo amico, portavoce della collettività e scrittore “secco” –, un «pescatore di maree che origlia dalla riva» e raccoglie dalle reti del tempo il culto della memoria, precisa e nebulosa insieme, si fa testimone falsato di sé, del suo dolore, della sua solitudine, di momenti di gioie parche e effimere. È un sentiero rinnovatosi nel tempo fino a scandire, nel suo complesso, le fasi di una vita – la tisi (malattia fisica che pur rimanda ad una “malattia di esistere”), la solitudine, gli amori, la vecchiaia – tutte attraversate dal ricordo e dal senso della morte quale perdita delle persone amate e come proiezione e attesa, talvolta desiderata, della sua. Ognuno di noi vive poiché è memoria, creiamo gesti o atti per ammassare future riserve di trascorsi come granai, come il segno dell’unghia su una foto che ci permetterà di riconoscere un volto l’indomani, recuperare un’impronta. Siamo il nostro ricordo, il prodotto del prima rivissuto nel dopo, in quel “bis” («noi moriamo istante per istante, solo la memoria ci consente una seconda possibilità») che ci viene concesso, anche nella poesia. Una scrittura capace di rievocare il pregio raro del talismano ripreso dal cassetto a distanza di anni e questo perché, ha scritto Sciascia, «Bufalino non ha preso – per come rigorosamente si prescriveva – l’eloquenza e le ha torto il collo, ma l’ha coltivata e depurata, l’ha resa tutt’uno con la poesia».

 


Bibliografia in bustina
G. Bufalino, L’amaro miele, Torino, Einaudi, 1982; seconda edizione arricchita delle sezioni Rimanenze e Esercizi di traduzione, Torino, Einaudi 1989; terza edizione con aggiunta di Senilia, Torino, Einaudi, 1996.
G. Bufalino, Opere 1981.1988 (a cura di M. Corti e F. Caputo; introduzione di M. Corti), Milano, Bompiani, 1992 (2001).
C. Baudelaire, I fiori del male (a cura di G. Bufalino), Milano, Mondadori, 1983 (2012).
L. Sciascia, Bufalino, dicerie in versi, recensione apparsa nell’inserto TuttoLibri de La Stampa, sabato 5 giugno 1982.
G. Tesio, L’amaro miele di Comiso, anticipazione dell’uscita de L’amaro miele apparsa nell’inserto TuttoLibri de La Stampa, sabato 5 giugno 1982.


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