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Donald Antrim: La vita dopo e non solo (di Renzo Favaron)

Cuore, mano, testa. Disegno di Renzo Favaron
Donald Antrim: La vita dopo e non solo

 

«Quanto più sono ridicoli e, apparentemente, inverosimili, tanto più sono credibili e rispecchianti stati d’animo reali e veri». Una tale frase, frutto di una mera reazione più che di una riflessione, mi è venuta scorrendo le pagine scritte da Donald Antrim. Chi è Donald Antrim? Di lui, probabilmente, si ricorderà il libro d’esordio, ossia Votate Robinson per un mondo migliore. In Italia è stato pubblicato nel 2002, quasi trent’anni dopo Ritorna, dr. Caligari, scritto da Donald Barthelme, che può essere considerato l’opera capostipite di un genere che è la sommatoria di tutti i generi (letterari) e, insieme, la loro negazione (immaginate qualcuno che entra in una sala piena di fumo e che, per rendere meno soffocante o più respirabile l’aria in cui è immerso, si accende una sigaretta). Forse non è inutile aggiungere che anche tra i critici più aperti e sensibili al nuovo (leggi, ad esempio, Fernanda Pivano), Donald Barthelme non rappresentò un modello né si intravide in quello che scriveva qualcosa di veramente interessante o che fosse l’espressione di uno stile innovativo e non solo critica del gusto. Dopotutto, non era facile districare le differenze e le parentele dell’opera di Donald Barthelme da quelle di Samuel Beckett e Eugène Ionesco, ovvero i due autori che fecero dell’assurdo il motore della loro visione del mondo. A metà degli anni ’60 del secolo scorso, naturalmente, anche in America spirava il vento delle ideologie (Jukebox all’idrogeno, lo si dice senza tema di sbagliarsi, non si può negare che abbia un tono impegnato e da poesia civile) e solo più tardi si sarebbe colta l’essenza postmoderna che trasudava dalle pagine di Donald Barthelme. Già, proprio così: ad appropriarsene pienamente e a incarnarne lo spirito, orbitando non solo intorno ma addirittura obliandosi all’interno delle viscere di New York (stato e/o città metropolitana), saranno autori come Tobias Wolff, David Foster Wallace, Denis Johnson, Rick Moody, David Means, Jonathan Franzen e, appunto, Donald Antrim (si noterà, tanto per dire, che tutti gli scrittori citati hanno pubblicato almeno due o tre raccolte – notevoli – di racconti). E qui finisce il parziale resoconto storico-letterario che ha rappresentato il contesto in cui si è sviluppata molta letteratura statunitense degli (negli?) ultimi vent’anni.

Si è detto (non senza una ragione) “finisce”, perché Donald Antrim, dopo la morte della madre, allestisce un memoir (La vita dopo, Einaudi 2007) con il quale si distacca e taglia di netto con l’impianto letterario postmoderno. Probabilmente l’operazione non è frutto di un calcolo. Anzi, è la conseguenza di un urto che viene dal passato, di un urto che si presenta sotto forma di un debito, di una specie di risarcimento inderogabile e a cui gli è impossibile sottrarsi. Diciamo anche che l’orchestrazione postmoderna è ormai diventata inservibile. O, meglio, è più che altro subordinata a un disegno e a una volontà in cui ciò che veramente conta è recuperare l’essenza umana all’origine del memoir, ossia la madre. Cosa che ha impegnato Donald Antrim per almeno cinque anni, anni difficili e alle prese con un disagio talmente grande da minare tutte le certezze e azzerare il tempo. Ma chi è sua madre? Naturalmente non è solo l’alcolizzata con la quale ha avuto a che fare durante l’infanzia e anche in seguito. No, la stessa madre non era stata solo un’alcolista e una tabagista incapace di prendersi cura adeguatamente di lui e quindi riconducibile a una figura dall’ego esorbitante e allo stereotipo della madre degenerata. Va detto, per inciso, che il padre è un professore universitario e che, per quanto più quadrato ed equilibrato, non avrà che un piccolo ascendente nella formazione e anche nell’orientare gli interessi e le aspirazioni di Donald. Già, proprio così: più determinante e centrale, altrimenti non si spiegherebbe tutto il disagio vissuto dopo la sua morte, è invece l’odiata e, latentemente, amata figura materna. In questo breve nota meriterebbe ben altro spazio definirne i tratti peculiari, ma si dirà che la sua più genuina influenza è esercitata in maniera indiretta, ossia attraverso qualcos’altro dal bere e da altri imperdonabili vizi. È lo stesso Donald Antrim a descriverla come una specie di artista non tanto incompresa, quanto di difficile o non sempre di facile decifrazione e interpretazione. Forse le pagine più belle sono proprio quelle in cui è l’autore stesso a mettere a fuoco il valore artistico delle sue creazioni e a riconoscere il suo talento e la sua indole indecifrabile. E facendo questo, ossia prestando più attenzione a sua madre, è come se l’autore definisse meglio anche la propria identità. In fondo, la sua vocazione letteraria e artistica non ha origine che da lei. Non solo: riconducibili alla figura materna sono altresì certi tratti esorbitanti e all’apparenza strampalati che si stagliano nelle pagine a cui hanno dato forma e sostanza le sue stesse mani, se così si può dire.

Esattamente nel 2016, tra l’altro, Einaudi ha pubblicato una raccolta di racconti (La luce smeraldo nell’aria) che costituisce un’ulteriore prova dell’umanità che si respira leggendo La vita dopo. Stranamente, o forse non poi così stranamente, l’ultima delle storie è ambientata in un luogo che molto probabilmente Donald Antrim ha frequentato durante l’infanzia. È un luogo sperduto come è sperduto il suo protagonista, che si presenta mettendoci di fronte al fatto di essere stato tenuto a galla  da un numero imprecisato di elettroshock. (Una delle qualità dello scrittore è di farci apparire normale e ordinario ciò che non lo è o che comunemente è percepito e reputato come qualcosa di terribile e angosciante). Per di più il racconto emana una dolcezza che sembra prendere le mosse dal periodo in cui Donald Antrim si faceva carico di Louanne, ossia di quella madre a cui dava “un miscuglio di gocce e di Ativan, stringendole forte la mano e dicendole che gli sarebbe mancata, mentre i suoi respiri si facevano sempre più radi”. Già, proprio così: raramente la letteratura sa toccare sentimenti di genuina intensità, ma se non ne è capace, dal momento che non può essere solo una questione di forma, allora è improbabile che possa risvegliare o suscitare l’idea di relazione. Anzi, ne sarebbe la mortificazione, il tradimento della sua ineludibile mission. Cosa presente alla lucida coscienza di Donald Antrim, la cui prosa graffiante è (paradossalmente) una boccata d’ossigeno e in pari tempo una formidabile ragione del perché frequentare la letteratura (quella necessaria non meno che estranea alla «massa dilagante di storie compite, seriose e mestamente ottuse», come ha scritto Adelle Waldmann).

© Renzo Favaron

Una replica a “Donald Antrim: La vita dopo e non solo (di Renzo Favaron)”

  1. Nei giorni scorsi, mentre compilavo la nota, mi è capitato di ripensare a una pellicola, toccante e vera, girata (nel 2015) da Nanni Moretti, cioè a Mia madre. Anche questo è un omaggio che rimanda e induce a prolungare lo sguardo al “quarto comandamento” (indipendentemente dalle proprie credenze religiose), come il memoir di Donald Antrim.

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