A proposito di contagi, paura e parole (su Nel contagio di Paolo Giordano, e altre considerazioni)
di Fabio Libasci
«Non ho paura di ammalarmi. Di cosa allora? Di tutto quello che può cambiare. Di scoprire che l’impalcatura della civiltà che conosco è un castello di carte». Così scrive Paolo Giordano in uno dei capitoli del suo Nel contagio appena uscito in un’edizione congiunta Einaudi-Corriere della sera e venduto faute de mieux in edicola o on-line, in ebook credo soprattutto. In una domenica silenziosa e assolata mi aggiro in solitudine e chiedo il volume all’edicolante che orgoglioso rivendica con un cartello: “non ho il virus”. Ecco, mi dico, ci siamo: la paura di cui leggerò forse nel libro di Giordano è qui in questo cartello scritto a grossi caratteri neri che negando la malattia ce la ricorda. Del resto da giorni, da settimane, ormai da più di un mese non si parla d’altro; le tv, il web, le poche persone viste parlano solo del contagio; ognuno con le sue parole, la sua cultura, la sua superstizione.
La letteratura non può tacere di fronte a questo bisogno di senso e del resto oggi sembra riprendere in mano un potere che la virtualità credeva di averle scippato: quello di consolarci nel momento della sventura personale, quasi sempre, collettiva come in questo momento. Del resto è quasi inutile ricordare che uno dei grandi capolavori della nostra letteratura nasce dalla peste, quel Decameron di cui a torto o ragione da più di un mese si parla come fosse l’ultima uscita. Dalla peste nasce il diletto, la voglia di raccontare, evadere, sospendere la vita e i suoi costumi come sottolinea Lavagetto nel recente studio dedicato proprio al capolavoro di Boccaccio, e dalla peste nasce una riflessione più tragica sull’umanità come nel caso del libro molto più recente di Albert Camus, anche questo più citato che letto. Poi, a cascata, Garcia-Marquez e il suo colera ma meno, molto meno alcuni grandi libri dedicati al più recente AIDS. Forse perché troppo recente e ancora non troppo dimenticato per essere resuscitato secondo le leggi della memoria e del mercato o forse perché non ritenuto abbastanza universale. Certo è che ogni contagio, epidemia o pandemia suscita parole, libri, riflessioni, domande e in certi casi perfino aperture metafisiche; si legga così il grande successo a reti unificate dell’indulgenza papale, quel suo silenzio nel bel mezzo di una tv che riempie di rumore ogni cosa, e il fiorire di rosari e benedizioni, reali e virtuali. In questo contesto di confusione disperata e di speranze lacerate chi scrive per mestiere e per abitudine si sente interpellato se non in colpa e non riesce a scrivere di nient’altro o se pure ci prova crede che qualsiasi altro argomento non vale quello. Nel Contagio è un instant book ma nel migliore senso possibile, un libro scritto nell’urgenza, in una settimana, quella tra il 29 febbraio e il 4 marzo, quei giorni che ci hanno fatto capire in modo definitivo che la nostra vita sarebbe cambiata, stava cambiando, era già cambiata: ognuno faccia l’uso che crede dei tempi verbali e li adatti al proprio sentire.
Giordano si è ritrovato “dentro uno spazio vuoto inatteso”, esattamente come mi sono ritrovato io che di mestiere faccio l’insegnante e da più di un mese faccio una teleattività al mattino ritenuta utile e necessaria e alla sera al momento dello scoramento creduta inutile e dannosa. Quel vuoto Giordano lo riempie scrivendo, allineandosi a tutti quelli che lo hanno preceduto, penso anche a Guibert che ha scritto il suo capolavoro À l’ami qui ne m’a pas sauvé la vie nell’attesa che un test confermasse la sua sieropositività e quindi e anche lì uno spazio vuoto ma da riempire a ogni costo. Se volessi continuare a cercare un parallelo con l’AIDS dovrei scrivere come Giordano che il contagio è un’infezione della nostra rete di relazioni e ancor più dell’AIDS perché quest’epidemia tocca tutte le nostre relazioni e non solo quelle sessuali; al limite dovremmo chiuderci in casa, da soli e aspettare che passi. Nemmeno la migliore letteratura fantascientifica era arrivata a tanto, neppure Philip K. Dick o Houellebecq e la sua realtà prossima e dunque senza un’impalcatura di parole atte a tenerci in piedi, a farci dire questo è come quello, a esercitare quel dono dell’analogia che da sempre ci aiuta a sopravvivere nel baratro: questo è come quello ma è anche più di quello. E allora la parola usata e abusata torna a essere la guerra: “siamo in guerra”, “combattiamo la guerra”, “dobbiamo vincerla, la guerra”; e poi quei “si va a combattere a mani nude” che tanto ripetono i governatori stanchi e la “Caporetto della sanità” che alcuni esorcizzano invocandola. La pandemia ci ha colto impreparati, dice giustamente lo scrittore e piano piano ci convince che la sola “arma” è la pazienza, quella che almeno un po’ di volte al giorno ci aiuta a non dire: fino a quando? Non lo sappiamo, non ne sappiamo nulla. Guibert scriveva riferendosi all’AIDS che doveva fare il suo lavoro in profondità prima di lasciare la morsa; ci vollero anni prima di scoprire gli antiretrovirali, prima di scoprire che con l’AIDS si poteva convivere ma non poteva essere sconfitto. Succederà così anche con il COVID, meglio noto come coronavirus? C’è voluto pochissimo per imparare a guardare con diffidenza l’altro, quello che si trova a un metro da noi, nella stessa corsia del supermercato, persino il familiare che dà un colpo di tosse vicino a noi e starnutisce senza spingere il naso sul gomito.
Certo, in pochi giorni abbiamo imparato molto; che molti lavori, volendo, potevano essere svolti da casa, che si convive con gente antipatica o che invece non si era convissuto abbastanza con il proprio partner, la propria mamma o il proprio animale, che internet è necessario e che si può usare meglio, che un abbraccio vale cento immagini di corpi nudi scambiati in fretta; che è completamente fasullo quel chiuso/aperto invocato da certi politici da fiera perché il virus non conosce frontiere e classi sociali essendo interamente naturale e dunque innocente: alla natura non importa di noi, conosce il potere nella sua forma più elementare: organismo debole e forte, vecchio e giovane. E allora il destino nostro, qui, in Italia è anche quello dell’Americano e del Sudanese, tocca convincerci che siamo noi, l’umanità, contro di lui: il virus.
Da giorni cerchiamo la colpa, e anche questo si è sempre fatto; nei secoli le colpe sono sempre state equamente divise tra animali e uomini, animali brutti come il topo e ora il pipistrello e uomini deboli e minoritari: i poveri, gli asiatici, gli omosessuali e ora i cinesi. Ma se il pipistrello come origine resiste, il cinese untore sembra pian piano venire meno: i più capiranno che quel pipistrello poteva raggiungerci ovunque una volta scacciato dal suo habitat che pian piano ma scientemente abbiamo occupato. Giordano è chiaro: “la deforestazione ci avvicina ad habitat che non prevedevano la nostra presenza, l’urbanesimo inarrestabile pure”.
Ci estingueremo? Chissà, forse no ma certo siamo in molti a chiedercelo e chi è credente timidamente comincia a ricordarlo: siamo nella barca in mezzo al mare in tempesta, stiamo aspettando Noè e abbiamo peccato troppo. Ci salveremo? Chissà, chi può dirlo. Cambieremo però ne sono sicuro e se non dovesse accadere vorrà dire che non abbiamo capito nulla. La peste nei secoli ha indotto l’Europa a misure igieniche sempre più forti, a reclamare l’acqua potabile, per evitare il colera; a far vaccinare tutti, anche i poveri, a far nascere una sanità accessibile; l’AIDS ha cambiato la sessualità mettendo fine agli spensierati e liberati anni ’70: oggi chi vuole praticare il sesso libero intende quasi sempre farlo col preservativo. E il COVID? Ancora è presto per sapere cosa cambierà, se non scopriremo che a casa separati ma uniti stiamo meglio, ancora una volta è questione di tempo, quello che credevamo di non avere più. Allora col tempo forse una nuova Susan Sontag scriverà Il covid e le sue metafore e tanti e forse troppi vorranno scrivere su questo mese, saranno molti di più tutti lo sanno e nessuno vuole dirlo – ancora una volta questione di parole -. Ci ricorderemo allora di questo silenzio nelle strade, di tutto questo lievito nelle cucine, di questa solitudine o dei troppi corpi negli stessi spazi. Ci ricorderemo e speriamo di essere in tanti a farlo di quel tempo vissuto nel contagio, tra le parole, nella letteratura.