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Bustine di zucchero #36: Nazim Hikmet

In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza. Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)

Hikmet

Nel libro Conversazioni con Joyce l’autore di Ulysses, così ci informa Franca Ruggieri nell’introduzione, spiegò all’allora giovane pittore Arthur Power – uomo di lettere irlandese disposto a imitare gli scrittori satirici francesi pur di acquisire una dimensione europea – che «non esiste universalità che possa prescindere da una profonda consapevolezza delle proprie radici». In quest’affermazione possiamo recuperare un’analogia con Hikmet, sebbene Joyce e il poeta turco siano due autori completamente diversi non solo per nazionalità e genere (Joyce frequentò la poesia meno della prosa), ma anche per argomenti trattati e approccio alla composizione. Tuttavia li accomuna l’esperienza dell’esilio, sebbene per ragioni differenti, un esilio non privo di richiami alle rispettive origini. Il richiamo di Hikmet alle radici, pur sempre amalgamato a una visione occidentale moderna, si esprime anche nella composizione di qualche rubai, la tradizionale quartina arabo-persiana di cui troviamo esempi nella canonica edizione curata da Joyce Lussu. Parlare di quartine significa andare indietro nel tempo fino alla Persia del X secolo, allora sotto dominio dei turchi selgiuchidi, facendo riferimento alla metrica dei versi detta “arud” (di fatti Hikmet, nella lettera a Joyce Lussu che leggiamo nell’edizione mondadoriana, descrisse la sua prima poesia scritta, da giovanissimo, con metrica chiusa arabo-persiana detta “aruz”); significa rievocare alcuni fra i grandi poeti che allora composero quartine come Jalal al-Din Rumi e, in particolare, il matematico e filosofo Omar Khayyam. E proprio a Khayyam Hikmet dedica due quartine di cui una riporta, a sua volta, i versi del poeta persiano che possiamo individuare nella quartina numero 110 della versione di Alessandro Bausani («È già l’aurora: lévati, o giovanetto raro,/Empi l’anfora cristallina di vin di rubino»). L’immagine lieta è, però, subito spezzata dai versi successivi, volutamente dissonanti. Il ragazzo che riempie la coppa di vino diviene un altro; non è quello della Persia della libagione, è il giovane dell’età contemporanea, del lavoro alienante, dell’industria pesante, dello sfruttamento umano. Ecco che in pochi versi trovano spazio la rievocazione di un’origine e lo sguardo sul tempo attuale, in particolare quest’ultimo rende conto dell’impegno civile e politico del poeta turco che è l’altro lato del suo amore per l’umanità, della sua fiducia nell’uomo, fiducia tradotta in speranza. Sono poesie d’amore perché non dicono soltanto il sentimento verso una donna, ma suggeriscono un più esteso atto di fratellanza verso l’essere umano; sono parole attraversate da un respiro vitale che partecipa alla vita del mondo e fa compagnia all’uomo laddove dolore e solitudine prevalgono. A Hikmet, per rievocare la bella frase di Publio Terenzio Afro, niente di ciò che è umano era estraneo, nella sua storia, nelle sue radici come nella sua attualità.


Bibliografia in bustina
N. Hikmet, Poesie d’amore, Milano, Mondadori (Lo Specchio), 1963; rist., Mondadori (Poesia), 1991 (2003).
A. Power, Conversazioni con Joyce (a cura di F. Ruggieri), Roma, Editori Riuniti, 1980.
O. Khayyam, Quartine (a cura di A. Bausani), Torino, Einaudi, 1956, 1979 (2009).


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