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proSabato: Sonia Caporossi, Hypnerotomachia Ulixis

Sonia Caporossi, Hypnerotomachia Ulixis, romanzo (Carteggi Letterari 2019)
Estratto dal Capitolo Primo *

 

Ho provato a giustificare le decisioni prese dal tribunale della mia terra natale, imposte sul mio capo come una condanna ineluttabile all’esilio più impietoso, ma non ho trovato risposta. Semplicemente, mi hanno detto che devo andare e io m’incamminerò. Sono condannato ad abbandonare di nuovo la mia patria, a percorrere ancora una volta i miei sentieri abissali a ritroso, a ritrovarmi stanco e vecchio nella vecchiaia e nella stanchezza, a un ennesimo naufragare amaro nel mio mare. Devo asciugare la saliva batterica del bacio che stampai come un’orma riprovevole sul suolo benedetto della mia petrosa Itaca. Devo salpare, disincagliare l’ancora che mi tiene ancora legato a un passato di gioie e di speranze, a un presente piatto, composto di quotidianità esasperate dal mio letto nuziale, a un futuro lusinghiero di vita alata oltre la morte, bella di fama e di sventura, come dicono i poeti. Il motivo della mia condanna irrevocabile? Non mi è noto. E comunque, nessun verbale addotto da tutti i giudici del mondo, nessuna giustificazione esplicita potrebbero mai donarmi il senso concreto di ciò che sento in questo preciso istante, mentre sono già pronto sul molo, la zattera dalla vela squadrata come fosse l’ennesimo ricamo di Penelope, già dispiegata da un vento complice di quest’estremo saluto.
I miei occhi partoriscono lacrime fluorescenti, come filtri monocromo della mia visione attuale in cui percepisco l’ambiente intorno a me, avvolto indistintamente in un lancinante bianco che mi allaccia le membra in una cappa grigia come un saio monacale. Piango di nostalgia e le mie lacrime, ecco, le percepisco come estranee a me. Povere, piccole lacrime che scavano solchi incuneati nei pori affranti della mia pelle, che erodono i meandri dilavati delle mie guance, mi carezzano la carne in una cerimonia purgativa di bruciante disinfezione di tutte le antiche ferite! Come pianto metamorfico, che trapassa senza sosta dallo stato solido a quello sublimato, gettato sulla scarna ambiguità del mio viso infisso nel ghigno rugoso di questa fronte da marinaio…povere lacrime un tempo mie, che tentano di baciarmi al mio rifiuto, come per porgermi l’estremo addio.
Nessuno sul molo, nessuno mi saluta, Nessuno sta partendo. La zattera compie il suo silenzioso dovere, staccandosi dal contatto con la madre terra il cui unico regalo è il fango che mi rimane incrostato indelebilmente sotto le piante dei piedi nudi.

*  *  *

Trascorsi pochi minuti in alto mare, già non so più dove mi trovo. Che strano viaggio è questo! Non mi sento più. Non ci sono. Non mi realizzo, non riesco a condensarmi nella minima idea di identità. Non comprendo le ragioni, le cause, le accuse e i capi di imputazione. Non ricordo quasi più neanche il mio nome. E niente della realtà abitudinaria a cui ero avvezzo nella mia terra natale esiste più ormai, dove ora mi trovo, in questo grigio azzurro, oppresso dal bianco di una palla calante di fuoco all’orizzonte, che non mi sento più di chiamare Sole.
Mentre fluisco con la mente esanime su questa tavola piatta di acqua blu cobalto che mi lascia scivolare lento verso il mio antico destino, provo col pensiero a ripercorrere le ultime giornate, quando ero stato messo in ceppi da galeotto. Soprattutto, provo a comprendere perché dovessi assolutamente impegnarmi in un qualsiasi compito assegnatomi nella mia terra natale da convenzioni familiari, sacrali, sociali che non sentivo più mie. Dovevo essere il Marito, il Padre, il Tutore dell’ordine sacerdotale, il Re. Ma io sono innanzitutto il Viaggiatore di ogni infantile girotondo: tutti su per mare, tutti giù per terra. Io sono un marinaio, sono un ammiraglio, sono un esploratore, sono un uomo di scienza. E non appena ho messo in opera la legittima ribellione alla mia fulgida nomenclatura, alla mia araldica proscritta, alla tremenda solitudine incarnata in Doveri obbligatori che non mi rispecchiavano più in quanto uomo, ecco arrivarmi la spada sul capo, la lettera di licenziamento, come fossi ormai una scheggia impazzita all’interno del Sistema produttivo; ecco la voce unanime di una giuria senza cuore, ecco l’esilio. Ma quest’esilio in fondo mi compete, fa per me, mi strizza l’occhiolino: io so che cosa sono. E quanto ci è voluto per annoiarmi del mio ritorno a Itaca, quanto ci è voluto per stancarmi del mio sacrosanto riposo!
Ho combattuto per finta dieci lunghi anni attorno a uno stupido muro fortificato, finché non ho deciso di porre fine con l’inganno di un trojan horse a quella esausta perdita di tempo. Sono tornato per terra e per mare nel ventre della patria in un naufragio che sembrava eterno, perso com’ero nella mia apatica malinconia, nella mia Sehnsucht struggente e insoddisfatta, estraniata dalla nostalgia di un’autostima convenzionale, maschiamente virile, priapesca e puttaniera. Ho fatto l’amore con tutte le maghe, con tutte le ninfe del mondo, colmandomi del puro desiderio amplificato nel grammofono stonato del mio desiderio impuro. Mi sono dato al vizio. Ho bevuto da tutti gli otri l’impuro liquore di Bacco, e se me ne veniva la subitanea voglia, mi gonfiavo come un maiale diventando paonazzo e sanguinolento, Cristo, altri dieci anni così! Dieci dannatissimi anni a cercare il filo di Arianna nel labirintico pasticcio di un ipotetico νόστος, trascorsi a parlottare impudentemente con i miei pensieri senza una rotta né una direzione! E ora, mentre scivolo sull’acqua nella forma dell’informe, mentre cedo le lusinghe all’ebefrenico addiaccio a cui sono condannato in mezzo al mare, preferirei sentire dolore fisico invece di questa lancinante estraniazione. Spegnete quel bianco, quell’azzurro, quel mare, quel Sole! Ho il respiro affannato, eppure sono calmo, o forse non sto respirando affatto. Sono l’hidalgo di questo viaggio ipnomorfico, ingaggiato dai custodi del Tempo per partorire pensieri slegati che si disegnano sul filo spinato dei nervi, legati nella carne ai sensori alieni di un elettroencefalogramma che mi fulmina le sinapsi con i cavi aracnofobici di un elettroshock. Sto avendo una crisi d’identità e nella crisi io vedo me stesso chiuso in un disegno intangibile, indecifrabile come un destino dal DNA mutante, tracciato a schizzi opachi sullo specchio d’acqua che deforma le mie fattezze: il mio viso è il volto di un Marsia ancora incarnato, ma simile a una sacca ricolma di vuoto; il rimasuglio escrementale della mosca sul mio mento è l’unico vezzo di questa pelle flaccida da vecchio lupo di mare. Vedo sfilare su quest’acqua cupa immagini deformate di sirene pinnate, indifferenti, che non chiamano più il mio nome, derisioni caudali in marcia verso un nuovo armonico disordine, incalzate dai tamburi battenti delle mie arterie inquiete che richiamano alla memoria un campionario di saggezza iperurania. Ulisse dal multiforme ingegno non può fermarsi in nessun luogo per prendersi cura di sé, deve partire, deve andare, deve perdersi, perdersi, perdersi, perché niente di ciò che sosta nella speranza di una qualsiasi fissità potrà mai eguagliare in purezza e perfezione ciò che transita e, avanzando, s’affina.
Nessuna parola può sminuire un gesto. Hanno alzato senza proferire nemmeno un fonema il ponte levatoio che m’instradava verso l’esilio. Hanno affidato il mio corpo martoriato dagli anni a una zattera, mi hanno detto di tornare da dove sono venuto. Ma dove ero arrivato? Appena toccherò terra, potrò riabbracciare tutti i mostri del mio passato, e tornerò preda di questo mio destino mai arroccato su una strategia di difesa, un barocchismo sovrabbondante e malato di curiosa ingenuità che tornerà a mettermi in pericolo. Lo so. Io so tutto, e saprò trovare il modo. Sono Ulisse dal multiforme ingegno. Ulisse dal multiforme impegno. Ulisse già morto come il legno di una cassa da morto tagliata su misura per la mia sete di inganno. Fatto non fui a viver come un bruto, ma per inseguire la sfilata d’alta moda della mia incoscienza. Tendo alla vita. Tendo alla morte. Tendo alla tensione per sé stessa. E ora, dove andrò, cosa farò, per quali guerre mi arruolerò indolente, certo di vincere nello scontato finale? Su quali pavimenti sconosciuti si stamperà il segno labile di conquista delle mie labbra screpolate dall’acqua salata del mare?

 

* Pubblicato precedentemente in rivista cartacea in una versione ampiamente diversa, come estratto del romanzo dal titolo provvisorio Ulisse, l’Ultimo Naufragio poi divenuto Hypnerotomachia Ulixis, su Blare out - Andata e ritorno. Note di cultura fuori dagli accordi Inverno 06, Venezia, 2015. Hypnerotomachia Ulixis di Sonia Caporossi è stato pubblicato da Carteggi Letterari (Prefazione di Anna Maria Curci) nella collana di Narrativa (Messina, aprile 2019).


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