– Nie wieder Zensur in der Kunst –
In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza. Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)
Un libro a cominciare dal libro, un’avventura della parola che sovverte i canoni del pensare e riflette sulla scrittura collegandola, a sua volta, ai temi più drammatici dell’esistenza. Questo è Il libro della sovversione non sospetta, primo volume di un’opera composta in quattro libri intitolata Le livre des limites (che comprende quindi Il libro della sovversione non sospetta, Il libro del dialogo, Il percorso, Il libro della condivisione). Tempo, spazio, solitudine, morte, luce, pensiero, creazione, Dio, libro, esilio, deserto: argomenti che interessano tanto la vita interiore dell’uomo, che medita su una genesi remota, quanto la scrittura come strumento di scavo della meditazione stessa, in un reciproco richiamo; affini e speculari, i temi migrano da un polo all’altro, dalla vita alla scrittura e all’inverso. L’esplorazione dell’uomo fonda, di conseguenza, la sua indagine su un senso perduto che, dalla vita, sconfina nel testo. Il pensiero trova espressione nella poesia e la parola, avviatasi da quel silenzio primordiale e sacro, cerca delle coordinate sulla pagina. Per Jabès scrivere vuol dire porre un’interrogazione iniziando dal vuoto, dall’assenza – assenza del volto di Dio, impenetrabilità del senso, ombra di un’origine ricercata ossessivamente nel libro, un libro sfuggente e inafferrabile –, simboleggiata pure dai margini vuoti fra una parola e l’altra. Di conseguenza la scrittura si spinge verso quella zona «dove pensare è poetare», diventa «allegoresi di una speranza e di una ferita» (A. Prete). Le parole lottano, allora, contro il buio, l’oblio, il nulla. Questa meditazione, talvolta esasperata e dolorosa, non si determina in una forma poetica unica e convenzionale, al contrario si struttura in una combinazione stilistica di frammento, aforisma, citazione, gioco di lettere, trattato, dialogo teatrale, una forma ibrida con al centro la parola e, intorno, lo spazio bianco. Perché nominare, cercare la penombra di un primo Nome? Nominare significa portare le cose all’esistenza, sottrarle a un silenzio nullificante. Siamo sicuri di poter indicare la luce senza dirne il nome? E così il dolore, la solitudine, la morte? Bisogna avventurarsi nel deserto per scoprire il suono, interrogarlo per poi interrogarsi. Si diceva della ferita. Jabès sigilla la fine del libro con la frase: «Non c’è ferita che non sia stata ferita». La scrittura espone in controluce una ferita che è il linguaggio; il poeta la subisce, anzi è ciò che lo rende poeta proprio per esserne attratto. Ciò che ferisce è il linguaggio, ha detto pure Brodskij, la sensibilità verso questa grande entità capace di contenere o che tenta di comprendere il senso di esistere. Di certo, poiché l’uomo cede alla spinta dell’indagine sul linguaggio per collocare il proprio essere nel mondo, si può affermare, con J.J. Arreola, che «la nostra lingua materna è la poesia». Essa sfida ogni distanza per elevare, come scrive Jabès, l’effimero e renderlo eterno.
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