Gabriele Galloni, L’estate del mondo.
Appunti per una poesia
di Giorgio Ghiotti
L’estate del mondo è l’ultima raccolta poetica di Gabriele Galloni. Appronto una recensione, e invece l’unica operazione che riesco a portare avanti è appuntare e confrontare, incrociare, sorprendermi nel tracciare idee che forse – è possibile – non ci sono nemmeno nelle poesie di questo lavoro, pubblicato da Marco Saya Editore, ma che pure in qualche modo creano un riverbero, una vibrazione nell’occhio di chi legge e nelle rispondenze tra verso e verso. Perché l’immaginario di Galloni è preciso, non vasto, per certi versi limitato; ma gratta gratta la vernice del tema si scova un repertorio pressoché infinito di immagini e soluzioni. Se mi trovassi di fronte a un quadro (e le poesie che compongono questo libro sono, a loro modo, miniature d’arte) direi che la tavolozza di Galloni è ridotta a pochissime tinte, ma bastevoli al poeta per dipingere qualunque paesaggio. Ecco allora qualche appunto, non una vera e propria recensione, come atto di ammirazione per un libro di grande valore; parole che sono simboli, o carte di tarocchi. Ogni pesca un destino, un’idea imprecisa di mondo cui adeguarsi.
Luna. C’è la presenza lunare, nell’Estate del mondo, come cono di luce sulla giovinezza eterna. Una luce penniana che illumina ciò che vuole e lascia in ombra il superfluo, scartando materia e accumulando gesti, tensioni, anche minime, ma fondamentali per i vent’anni dei corpi che si muovono in queste poesie.
Corpi. Luminescenti, stagliati su uno sfondo di nostalgia e eroismo, tra un cielo che non si asciuga e un mare che sembra fermo al desiderio delle giovinezze, di tutte le giovinezze. Corpi che somigliano di più a sagome, ritratte da Galloni nel momento prima che vadano perse, per un colpo di vento sulla spiaggia o per un abbandono, decretando una legge universale dell’amore e dell’esistenza: esistiamo solo quando qualcuno ci guarda, solo di faccia, mai di spalle. E, del resto, chi guarda desidera (sarà un caso che il desiderio stia a significare uno iato, una distanza tra i nostri corpi o sagome mezzo umane mezzo celesti – e comunque, certamente, goffe e inadatte alla perfezione del caso – e le stelle di cui ipotizziamo la portata e la magia, l’influenza e la morte precoce, il fine-vita più luminoso dell’universo.
Quella che viene tracciata da Galloni come un cartografo leggendario e accorto, studiosissimo di terra e cielo e flussi di maree interne e esterne all’uomo, è una sorprendente geografia degli affetti, un’urbanistica del cuore che tocca Torvaianica e il Serpentone, Fiumicino e Corviale: ultime spiagge, piste d’atterraggio, fine luce – ma tutta vastità di luce –, coagulo di vita, punto di fuga di ogni vita, miracolo.
Il ricordo sta davanti a noi, non dietro, nella poesia di Galloni, e questo è un unicum. Così quello che accade è nel futuro, e pure produce insieme una nostalgia e un’attesa, una tristezza e un’euforia. Vista spiaggia, si compie il tirocinio delle creature alla vita; non più i morti de In che luce cadranno, ma creature nuove, fatte di sangue e leggenda, l’unico modo in cui un poeta può pensare la giovinezza. Creature così simili, a ben vedere, ai “personaggi” delle prime poesie della raccolta d’esordio di Galloni, Slittamenti. Insomma, ora come allora, tutto è simbolo. La novità non interessa questo giovane poeta, è l’immersione ad affascinarlo; recuperare i nodi di quella prima raccolta con maggiore saggezza e in stato di grazia sembra allora un passaggio obbligato, specialmente dopo una seconda prova tanto riuscita e felice come In che luce cadranno e una terza, Creatura breve, evidentemente meno riuscita, in sordina rispetto agli altri libri del poeta romano. Ho sentito dire una volta che Leopardi si salverà se riuscirà a scrollarsi di dosso il mito di Recanati. Vale lo stesso (con le ovvie e dovute differenze) per Galloni: se riuscirà a scrollarsi di dosso il piccolo mito in cui ogni percorso poetico ai suoi inizi rischia di restare intrappolato.
Ricordo, qualche tempo fa, una discussione sulla “morte in poesia”, meglio sui “morti in poesia”; che tanto impegnò giovani studiosi in attacchi e considerazioni. A me non importò nulla, soprattutto dal momento che non ho mai creduto essere la morte l’estetica di Gabriele Galloni, tutt’altro; è la vita sospesa, la vita-per-sempre, la Vita-in-lui la vera estetica di Galloni, quella vita che accade d’estate per le strade deserte e canicolari di un quartiere popolare: crediamo di vedere spiriti, e invece sono persone verissime, un ragazzo, un vecchio, una bambina, ognuno impegnato nel suo mondo tra un palazzone e l’altro, tra un silenzio di muro e l’altro, in una Roma che si direbbe surreale se non incarnasse l’anima più vera della città, delle sue creature. Credi di guardare e ti rammenti. Ci sono nato anch’io in questi spazi, e nelle pagine di Galloni, nella sua poesia, trovo casa e amore.
© Giorgio Ghiotti