Il titolo del libro di Maurizio Soldini, Lo spolverio delle macchine terrestri (nota di Giuseppe Manitta, Il Convivio Editore, Castiglione di Sicilia 2019, pp. 184, euro 15,00), ci dà il senso dell’interrogarsi sulla condizione umana all’interno della dimensione terrena (su questa «malmostosa terra», p. 94), in una dinamica caratterizzata dalla finitudine nello scorrere inesorabile del tempo. Una condizione che viene esplorata sia sul piano della quotidianità e delle piccole cose che la riempiono sia su quello teorico della conoscenza e della ricerca che va oltre il dato immediato. Da un punto di vista generale, o esistenziale, e da un punto di vista particolare-concreto, o esistentivo, per dirla con l’Heidegger pur citato in esergo.
Testimonianza di questa ricerca ci è data, oltre ovviamente dalle tante pagine in cui si dispiega, riannodando i fili delle stesse questioni più volte riprese, anche dalla comparsa,quasi a fine libro, dell’espressione «meccaniche celesti», come a raccordare terminologicamente macro e microsistema. Un raccordo che avviene anche grazie alla compresenza nel libro di un lessico alto e a volte specialistico e di un linguaggio basso e colloquiale. Lo mette in rilievo anche Gualberto Alvino (treccani.it/magazine/lingua_italiana, 22 aprile 2019) che ci fornisce rispettivamente questi due elenchi: serpigine, albedo, ipocondrio, metanoia, midriasi, miosi, astenia, disbasia, logica binaria, falbo, basculante, tettonica, vindice, resilienza, stocastici, canniccio, mutacico, gemizi, invitto, cogenza, fabulare, aspergine, antalgia, ischiatiche, giugulo, nistagmo, peronospora, sacertà, allotrio per il primo aspetto; bar, chiacchierare, tettoia, scalino prescia e perfino culo per il secondo. E lo studioso mette in evidenza come a testi surreali e oscuri, vedi La differance, si alternino testi limpidi e scorrevoli, e chiede poi al lettore di decidere quale forma rappresenti meglio il fare poetico del nostro autore.
Di «vivacità stilistica», e quindi possiamo dire di “varietà”, parla anche Giuseppe Manitta nella sua nota introduttiva nella quale ravvisa nella poesia di Soldini anche una «molteplicità tematica […] che avanza per scorci e per visioni», senza però rischio di frammentazione perché l’istanza gnoseologica dà all’opera una sostanziale «unità di ricerca». Anche per Manitta, il dettaglio serve a illuminare il tutto, come chiarisce l’esempio dei cerchi concentrici provocati da un sasso gettato nell’acqua e che fa la propria comparsa in uno dei testi della raccolta.
Mi preme mettere in rilievo però l’aspetto – diciamo così – odeporico del libro, laddove il paese straniero e scognito attraversato è la vita stessa, vista come un viaggio in una tensione continua di oltrepassamento di confini, e di soglie, in un andare (per riprendere Heidegger) su Holzwege, sentieri erranti che si perdono nella selva dell’esistere.
Già il primo testo, ossimoricamente in quanto d’apertura – s’intitola Frontiera. Importante, anche per la sua programmatica collocazione iniziale, da un punto di vista stilistisco, come nota sempre Alvino – in quanto sonetto composto da versi “interpretabili” come endecasillabi pur con infrazioni – esso lo è, possiamo aggiungere, anche tematicamente. I primi versi recitano infatti: «ora il viaggio strema dentro i vicoli/ oscurando i passi dietro i lampioni/ artificio della rimessa in conto –/ subitanee dicerie di frontiera» (p. 13). Ma soprattutto fondamentale in questa «istanza del viaggio» è il testo che dà il titolo alla raccolta (p. 137):
lo spolverio delle meccaniche terrestri
si sente dal vagabondare nelle strade
per queste allucinate algebre dei corpi
qualche bagliore da scontare si scorge
dentro il logorio nelle viandanze
riflesse nella sera alle vetrine dei negozi.
La dimensione ambigua del confine – che impedisce, ma anche pone in contatto – è espressa già nel titolo del secondo testo della raccolta, Muro pelle (p. 14) laddove, se il muro è l’ostacolo, la pelle è invece il limite esterno del nostro corpo che pure ci mette in relazione con il mondo in una hegeliana dialettica interno/esterno. Così come, nell’ultimo verso della stessa poesia, la «ferita» della cute si fa «feritoia» – ma anche un muro può essere cosparso di feritoie perdendo l’aspetto di barriera assoluta.
La vita, da un punto di vista esistenziale, e la realtà da un punto di vista ontologico-gnoseologico, sono piene di «strettoie» (lemma che, declinato rispettivamente al plurale e al singolare, ricorre subito dopo), ma nondimeno «un passo dietro l’altro» ci si destreggia perché «il fondo della verità si ostina/ e presto emerge come in sogno».
Un percorso è fatto a sua volta di fermate («si sosta nella stazione al riparo», p. 27), ma anche di sguardi all’indietro a rovesciare la vettorialità unidirezionale del tempo, un’esigenza che si esprime dall’inizio alla fine del libro: «voltarsi è come mettere una toppa/ al dipartire del percorso che incede/ senza tregua alla finale di memoria» (Voltarsi, p. 25); «ma in default tornerà il tempo di prima/ e l’inversione dei ricordi muterà passo/ aprirà a nuove lune e a vecchie contumacie» (p. 112) in una coincidenza di «memoria e presenza» (p. 109), e futuro. In questa bruniana eterna vicissitudine s’alza (p. 113) «il canto lieve della mutazione» pur assistendo allo «sciorinare del contempo nella finitudine/… / nella trasparenza/ di ogni materia che alfine s’anima e muta in vento». E in questo verso si possono rilevare più finezze: da un lato la materia (anche qui brunianamente) che si fa anima: ma se teniamo conto che anima viene dal greco anemos che significa vento ecco che il lemma contiene in sé anche la parola che chiude il verso.
Un’eterna vicissitudine che porta, per dirla sempre con il poeta, dalla notte al giorno (questo è titolo di sezione), dal nulla al tutto, per poi raggiungere la meta finale: «salto mancato dalla notte al giorno/ l’impasse che gela ogni scommessa/… / chiusa la porta s’apre il portone» (p. 90). E altrove (sempre nell’insistenza di questo rapporto interno/esterno, qui/altrove): «porte aperte chiuse riaperte/ sbarrate precluse sigillate» (p. 68).
Il secolo ha avuto vita breve (come breve è la singola vita) ed è passato in questa erranza del tempo (p. 61): forse però creano una sosta, una pausa, anche le rime interne nelle quali i versi a loro volta si girano all’indietro facendo delle «mete una partenza» (p. 49): e già nel primo testo leggiamo di un «convoglio/ che fugge e lagna verso la campagna» (ma significativa è anche, foneticamente e semanticamente «l’antalgia della nostalgia», p. 85).
Sosta infine è il rapprendere il tempo intorno a piccole e quotidiane cose (p. 98):
serena luce del mattino
fresco riverbero di sole
sulle calendule e sui tetti
nell’aria odore di cannella
frizzanti guizzi alla fontana
un tremolio si posa sulle tende
la tazza di caffè fumante
disegna danze angelicate
il gatto fa le fusa alla poltrona
sorniona entra lontana in scena
la giostra delle ore slacciata la cintura
con la guêpière inizia la giornata
estremo desiderio di un’insonne notte
il risveglio degli innamorati
si adagia lesto sopra il canapè.
Come a dire che, pure nella fugacità della vita, possiamo cogliere il piacere che certi momenti dispensano e di cui è fatta concretamente l’esistenza. E in questo spolverio di minute cose essa si muove e palpita. È qui in fondo l’ubiconsistam, il punto d’appoggio, che dà il titolo all’ultimo dei testi con il quale (provvisoriamente) l’autore si congeda, con un’eco di Eco, dal lettore: «l’ubiconsistam è il nome della rosa» (p. 175).
© Enzo Rega