
Francesca Del Moro, La statura della palma. Canti di martiri antiche, Edizioni Cofine 2019
Martirio e poesia: testimonianza, astuzia, scandalo, interrogazione inesausta, ferita aperta, prodigio d’amore. No, non è una mescolanza casuale di concetti contrastanti, fumo negli occhi per stemperare, annullandolo, il paradosso, per distogliere dalla temerarietà del filo rosso prescelto, dal momento che il martirio è divenuto a sua volta categoria abusata e martoriata.
Niente di tutto questo, bensì, in una sequenza in cui ogni elemento è intimamente collegato all’altro, un insieme di nodi e gangli, un universo di costellazioni di significato che brillano e illuminano, si illuminano vicendevolmente e schiudono alla vista possibili sentieri interpretativi.
Costellazioni, tutte, che si sono animate, nelle successive riscritture, di cui sono stata felice testimone, dell’opera di Francesca Del Moro, dalla stesura iniziale fino alla versione che si presenta qui a chi legge.
Il percorso tra i termini enunciati in apertura sarà dunque una breve ricostruzione del divenire di un’opera e, insieme, un tributo alla parola poetica che ne è scaturita.
L’itinerario comincia dunque con ‘testimonianza’, termine che intendo accostare al greco martyrion, al suo equivalente in una lingua che, proprio alle origini della Chiesa cristiana, comincia a diffondere con un’intensità non conosciuta prima questa parola e a conferirle una connotazione particolare, vale a dire “testimonianza di fede con il sacrificio di sé, con il proprio sangue”.
Nella raccolta La statura della palma sono tredici martiri dei primi secoli del cristianesimo a dare testimonianza, attraverso il loro canto, non solo di una fede vissuta con estrema consapevolezza, ma anche di una morte cruenta, frutto di uno scontro – l’amore e la “sete insondabile e perenne” di assoluto avvertiti come emancipazione totale dalla schiavitù da un lato, la repressione violenta del potere dai tratti esplicitamente patriarcali dall’altro – affrontato, da parte delle «tredici donne bellissime e dallo sguardo fiero» che narrano il loro martirio, con una capacità argomentativa non comune.
Comune a tutti i canti è una critica al potere patriarcale, non disgiunta – e, assieme alla cornice narrativa ideata da Francesca Del Moro, la visione di Maria, il riferimento bibliografico al Vangelo secondo Gesù Cristo di José Saramago è rivelatore – dall’idea di un Padre celeste autoritario e tendente alla scelta di soluzioni sanguinose.
[…]
La pienezza della poesia non può essere separata dal suo fluire deciso, perfino inarrestabile, che sovverte i rapporti di forza comunemente intesi e costantemente praticati “nel mondo”. La poesia dà scandalo, è pietra d’inciampo che si fa pietra angolare. Scandalo è la testimonianza delle tredici donne, che capovolge senso e fine di azioni e reazioni. Nel canto da lei pronunciato, Agnese afferma: «Mi strapperete la lingua ma non dirà il vostro nome/ né formerete dalla mia bocca sanguinante un bacio./ Mi piegherete le braccia, eppure non vi cingeranno./ Se mi tagliate le mani, non mieterete carezze./ Non è passione la fiamma che mi colora le guance/ né è resa questo abbandono./ Non sarà varco allo spirito alcuna breccia nella carne».
[…]
È una ferita aperta che spalanca le porte al mistero, che dà vita al prodigio. Nella lingua tedesca, come la scrittrice italiana Paola Capriolo fa intuire in un passaggio del suo romanzo Il doppio regno, solo una lettera dell’alfabeto separa la parola per ‘ferita’, Wunde, dalla parola che rende il ‘miracolo’, Wunder. Dalla piaga al prodigio, e al prodigio d’amore: in questo consiste il movimento centrale dei canti raccolti e composti per La statura della palma, movimento che si profila qui come “passaggio del testimone” a tutti coloro che, leggendo e ascoltando, vorranno raccoglierlo, e che conferma la cifra che contraddistingue tutta la poesia di Francesca Del Moro.
© Anna Maria Curci (dalla Prefazione)
La tua statura rassomiglia a una palma e i tuoi seni a grappoli.
Cantico dei Cantici
Il giusto come palma fiorirà.
Salmo 92
Tra le storie più affascinanti che ho ascoltato da bambina, mi torna spesso in mente quella della “O” del dattero. Per anni la mia nonna paterna, Lea, me l’ha ripetuta a Natale mostrandomi il cerchietto impresso al centro dei noccioli dei datteri secchi e ho a lungo sospettato che se la fosse inventata. La leggenda è effettivamente poco nota e circola in almeno due versioni. Secondo la prima, durante la fuga in Egitto, la Madonna con il piccolo Gesù cercò riparo ai piedi di una palma da dattero ma i soldati di Erode la trovarono, così avvolse il bambino che teneva tra le braccia in una coperta. Quando i soldati le chiesero cosa stesse nascondendo, rispose che aveva solo dei fiori, ma gli uomini non le credettero e le ordinarono di scostare la coperta. La Madonna obbedì rivelando una moltitudine di fiori variopinti e profumati. A quella vista, i soldati esclamarono tutti insieme una “O” di meraviglia che si impresse nei noccioli dei datteri di quella palma e di qualsiasi altro dattero per sempre. Secondo un’altra versione della storia, sarebbe stata invece Maria, deliziata dai frutti della palma all’ombra della quale riposava, a pronunciare la “O” di cui ogni nocciolo di dattero avrebbe serbato traccia. Pressoché sconosciuta è una terza versione, più inquietante. Ve la racconterò nelle pagine a venire.
MARGHERITA
Perché mi volgi gli occhi
gorghi gonfi di sgomento?
Era più facile di certo
schiacciarti il capo col calcagno
quando giganteggiavi
drago-diavolo nel sogno.
Cos’è quest’umiltà nuova
quest’umiltà che t’inginocchia?
Perché mi baci le mani
perché piangi?
Ti sfioro il dorso, riconosco
il graffio, lo strappo delle ali.
Eri il più bello degli angeli.
“Felici quelli che Dio vuole
felici” dici “e me infelice e invidioso
armato a tutti i suoi crimini.
Nei suoi ghingheri di Sommo Bene
necessitava di una controparte
per continuare a fare danni.
Sulla pancia mi posò a strisciare
a insidiare i vostri primi avi
che gli piacevano esserini saltellanti
per sempre soddisfatti, sempre grati.
A loro feci il mio dono più grande
la conoscenza del giusto, la passione
l’ingegno e una sensualità esuberante.
Un viaggio più avventuroso
del godimento pacioso
del suo stucchevole mondo.
Ammise d’aver preso un granchio.
Così fece di me il primo assassino
e poi fui inconsapevole strumento
del suo delitto più spettacolare:
l’atroce e insensato supplizio
dell’uomo che dite suo figlio.
Il suo è un progetto perfetto.
Una è la macchia di sangue
che nei secoli si allarga
uno solo è l’assassino
nei suoi mutevoli nomi.
Odiate me, mi scacciate.
E lui prosegue nel suo piano
sbrilluccicante e indisturbato”.
Mentre mi parla, la fiamma
arde negli occhi del diavolo.
Vattene, grido, Satana
la tua maschera pietosa non mi inganna.
Il cielo sbianca nell’alba
stanca la notte si accovaccia
a oriente, dietro le montagne.
Mi sale in gola una misericordia
una pietà implacabile.
Un sogno inattingibile di pace.
Porterò oggi in dono al boia
il mio cuore perdonante.
LUCIA
Se anche mi strappassi gli occhi
Signore
per mandarli come biscotti
su un vassoio d’argento al mio aguzzino
oppure offrirglieli come margherite
se come lunghe lacrime li spremessi fuori
se li svitassi come lampade a rischiarargli la notte
ti leggerei con le dita l’alfabeto delle ferite.
Rinuncerei allo sguardo
innamorante, dove brilla
lo Spirito che fatto stella
ornò il capo di mia madre
le sciolse il gelo nel grembo
e nel mio nome pronunciò
la luminosa promessa.
Di luce avvolsi Siracusa
venuta al mondo, e la Sicilia tutta.
Chi non riesce a contrastare
la mia eloquenza e lo sguardo
oggi mi manda al lupanare.
A nulla valgono però
mille servi a trainarmi
né funi ai piedi e alle mani
né cento carri di buoi.
Rimango salda come acciaio
e come acciaio esco temprata
dalla pece infuocata.
La folla invoca la spada.
Ora s’invera in te la vista.
Ti leggo tutti i nostri nomi
a uno a uno sulle labbra.
“Perché col mio sangue, Padre
chiami altro sangue innocente?
Perché togli memoria alla tua Chiesa
che farà martiri come queste?
Perché questo squartare incrinare sventrare
questo guastare spezzare ardere ammaccare
questo strozzare soffocare spezzettare eccetera?
Non ti fanno spavento questi morti a tua immagine?
Dimmi, padre, tutto questo a che vale?”
Parli con la stessa voce
che nell’orto del Getsemani
s’impigliava tra le foglie.
Come allora ovunque sale
il respiro formidabile del padre
del padre che tace.
Ma per me è già troppo tardi.
Non posso più rinunciare, non è tempo
per questo genere di ripensamenti.
Così cadranno insieme al capo
i miei occhi lucenti.