Vorrei farvi il quadro della situazione. Di come la nostra vita sia cambiata da una normale sussistenza tra umani a uno scenario tipico di Durrell, benché gli animali siano solo tre, almeno l’ultima volta che ho telefonato a casa.
Quattro, se si conta il bengalino che è l’estasi e il tormento di Morgan, ma di questo avremo modo di parlare.
Quando mia sorella mi disse che avrebbero preso un gatto, io stavo tirando fuori un maglione da uno stand dell’oviesse. Aveva una buona percentuale di lana, e nonostante questo me lo potevo permettere, ma non l’ho mai comprato, perché l’idea di un gatto in casa Amato era un evento storico e dovevo prendermi un po’ di tempo per barcollare. Voleva dire, innanzitutto, che Madre avrebbe smesso di pronunciare quotidianamente la frase “come vorrei avere un gatto se solo non limitassero tanto negli spostamenti e poi forse questa casa non è adatta ad avere un gatto sai i divani poi”.
Giulia mi disse che sarebbe stato un norvegese, e di cercarlo su internet. Smanettai subito con il telefono e mi spaventai. Si profilavano chili e chili di essere vivente, con metri quadri di pelo annesso.
Io ero lontana, ovviamente, quando la piccola arrivò. Era ancora piccola nel senso che stava ancora su una piastrella, il suo visetto era leggermente diverso da adesso, come più stuporosamente largo. Era tutta nera, salvo il bianco dei guanti delle zampine e della lacrima che dal principio della fronte si allargava al musetto, e poi alla pancia, un’unica livrea soffice come il cotone. Morgan avrebbe perso questa batuffolosità per un mantello lucido e setoso, ma questa è un’altra storia; Salomé sarebbe rimasta sempre così, con la morbidezza leggermente stopposa di un gatto piccolo. Io vivevo attaccata al telefono, anche se non ero il tipo che si affeziona ai gatti (e ignora l’esistenza dei cani), il mio era un interesse estetico ed epistemologico, e il punto in cui andò a incunearsi tutto il mio interesse fu la scelta del nome.
Madre sospirava:
«Oh, avrei sempre desiderato avere una gatta e chiamarla Grace.»
Mia sorella era fervidamente occupata nelle operazioni di spoglio. Io, a distanza, proposi Matilde, in omaggio alla creatura che ha ricevuto le più meravigliose poesie d’amore che un essere umano abbia mai dedicato alla sua legittima compagna e non a un’irraggiungibile figura, perché nel secondo caso sono buoni in molti, ma nel primo riescono pochissimi.
Madre continuava a sospirare, vocina lieve al di là del telefono, oh come vorrei chiamarla Grace.
Non so perché non le prestammo nessuna attenzione, anche se il nome in fondo piaceva a tutte e due. Forse quel continuo sospiro e l’uso indefesso del condizionale ancoravano l’enunciato all’ambito della velleità, e le nostre orecchie continuavano a non registrarlo.Mia sorella, che al tempo studiava Carmelo Bene, decise per Salomé. E davvero non poteva esistere altro nome, per la sua maniera flessuosa di camminare e la sua potenza gentile, come addormentata. Non è raro che Salomé faccia qualcosa di buffo, come saltare a pié pari nel forno a microonde aperto o battere saltando la testa contro il vetro di un tavolino, ma si intuisce in lei la quieta ferocia di una tagliatrice di teste, qualora realmente lo desiderasse.
Con l’arrivo dell’estate, e me in pianta stabile in giro per casa, si cominciò a vociferare dell’opportunità di prendere un secondo gatto. Un amico molto caro, che ne aveva due, suggerì che era il metodo migliore per renderli felici entrambi. Gli chiedemmo se i suoi si volevano bene. No, rispose lui, uno adorava l’altra e l’altra avrebbe volentieri avvelenato l’uno con delle polpette al cianuro, ma anche tutto questo contribuiva a tenerli impegnati tutti e due. A Madre, che aspettava solo legittimazione per intraprendere il percorso che l’avrebbe portata a entrare in casa spargendo croccantini con la mano (così il mio amico mi disse, più tardi, di averla visualizzata in quel momento), a Madre, dicevo, qualcosa negli occhi brillò.
Non se ne fece niente per qualche tempo. Poi a settembre, mentre inforcavo la fida bicicletta che ogni anno il Festivaletteratura mi dà in prestito per seguire gli eventi per questo blog, mi arrivò sul cellulare una fotografia. Avevamo appena finito di imparare a fare patchwork con l’autrice di La ragazza dall’orecchino di perla, e mi sembrava già di vivere in una dimensione surreale, quando senza preavviso vidi una norvegese castana, magra e dal pelo lunghissimo, guardarmi con occhi pieni di implorante speranza dal retro di un lavandino. Quanto è brutta, pensai, e glielo dissi senza scrupolo alcuno.
Morgan è forse la gatta più bella che sia mai scesa in Terra. Dopo un’operazione all’anca perse il suo sguardo dolorante e divenne fiera, tigresca. Il suo mantello sfiora il terreno mentre solleva le zampe con un vago accenno di insofferenza, il suo muso è lungo e regolare come quello di un lupo.
A differenza di Salomé, che vuole controllare che tutto vada bene anche quando ci laviamo i denti e sale sulle ginocchia appena ci posiamo su qualsiasi superficie, Morgan è alquanto schizzinosa riguardo alla compagnia umana. C’è un breve margine per le carezze, appreso con fatica e con una certa condiscendenza, e un piacere a stare nella stessa stanza, ma nulla di più. Può capitare che, di notte, io me la sia trovata intenta a fissarmi, seduta sulle zampe, dal pavimento poco lontano. La mia migliore amica che ha visto le fotografie la chiama la persona: e davvero Morgan ha uno sguardo umano, come di qualcuno che sia tornato per accorgersi e prendersi cura.
Le due sorelle si amano, anche se non sanno di condividere la stessa madre. Salomé corre, Morgan è il fido scudiero, e tranne nell’osservazione del bengalino, attività in cui Morgan eccelle di per sé, la piccola lascia sempre che sia la grande a vivere le avventure, limitandosi a testimoniarle. Inoltre l’anca bionica le impedisce di saltare, e una delle cose più belle e tristi insieme è vedere Salomé signoreggiare sull’alto di una scansia e Morgan scodinzolare fiera dal pavimento.
Per il resto, fanno cose normali, tipo restare sullo stipite del balcone quando fa freddissimo dopo aver implorato di uscire ed essere felici quando arriva il corriere di Amazon, ma fanno anche cose strane. Salomè ad esempio contempla la pianta in balcone, a occhi sgranati, per ore intere, meditando. Abbiamo pensato a lungo che fosse in grado di vedere i Pokémon.
Tutto è andato regolare per qualche anno, quando questo dicembre ho chiamato a casa e mia madre mi ha riferito che, avendo visto un gattino di circa un mese abbandonato dalla madre e con un occhio precario, l’avevano ovviamente portato a casa, previa breve sosta dal veterinario. È seguita fotografia di un’incontenibile massa di peluria bianca con un’imbarazzante coda a fiammifero e l’occhio, uno al momento, vispo e intelligente.
L’hanno chiamato Mosé, ma si sono accorte subito che non andava bene. Hanno organizzato una riunione di famiglia, e dopo aver scartato tutte le opzioni che ho dato a distanza hanno scelto per Artù, a patto che finché fosse stato cucciolo si sarebbe chiamato Semola. Poi è venuto il turno di Figaro, che ha tenuto botta per circa una settimana, prima di lasciare spazio a Lord Byron, estremamente appropriato per il gatto in sé ma alquanto scomodo all’atto di chiamarlo per la pappa serale. Con molta calma, a gennaio inoltrato, sono stata raggiunta dalla notizia che Artù andava più che bene. La mia migliore amica, quella che sostiene che Morgan sia una persona, ha reagito constatando che Figaro è un nome bellissimo e che continuerà a chiamarlo così. Ad ogni modo, quando io sono scesa a casa per le vacanze di Natale ho ribadito che non sono il tipo che si affeziona ai gatti, e ne sono salita con gli occhi a cuore, urlando che volevo mettermi in malattia e restare a guardarlo per sempre e se avessi saputo fare a maglia babbucce per gatti l’avrei fatto. Artù, che al momento si chiamava Mosé, deve aver guardato la parola “carino” nel dizionario e capito che sì, si trattava di lui, e c’erano svariate pose e gesture che poteva attuare per mettere questa cosa in evidenza ai nostri occhi. Tipo inclinare la testa verso un orizzonte obliquo facendo riflettere la luce nelle pupille (una, al momento), o stiracchiarsi sul divano a pancia in su, mettendo bene in mostra i cuscinetti rosa della zampina.
Caricato a molla e quotidianamente determinato a essere istericamente felice nonostante gli acciacchi, Artù è come Xena, spadroneggia su una terra in tumulto. Morgan e Salomé hanno cominciato temendolo come un’epidemia. Poi Salomé ha dato qualche segno di avvicinamento, e Morgan stava a piccola distanza prendendo appunti, cercando di capire come regolarsi di conseguenza. Al momento attuale, Salomé sbriga qualche pratica di lavaggio, Morgan gli sofficchia qui e lì. Le madame vanno comunque chiuse in bagno all’ora di cena per evitare che lui vada a spaventarle per spazzolare il loro cibo.
Non avendo figure adulte che gli abbiano insegnato a fare le cose, a partire dalla madre degenere (la madre gatta, non Madre), è stato all’inizio un po’ complesso assicurarsi che bevesse usando correttamente la linguetta, che prendesse da solo la via della lettiera senza che dovessimo scrutare nei suoi occhi (uno, al momento) il bisogno di fare pipì, e che comprendesse che ci sono momenti in cui il contatto fisico non è necessario, come la mezz’ora in cui mia sorella fa yoga. Difetta ancora nell’ultima delle tre cose, ne ho deliziose prove fotografiche. Ma il momento di massimo trionfo e commozione fu quando si fece male a una zampina e dormì tutto il giorno nella cesta, alzandosi soltanto, con movimenti lunghi e trascinati, per fare i bisogni lì dove andavano fatti. Mi sentii fiera di lui come il giorno in cui la mia classe prese otto in paranza alla prova di geografia. Lui guarì subito, e quella notte stessa tornò a dormire con il pancino sulla mia faccia, di modo che io sentissi il cuore e meditassi loschi piani per non riprendere servizio a scuola e rimanere con lui.
Il suo occhio è guarito, anche se è un po’ più piccolo dell’altro. Appena avrà la percezione della profondità, giocherà ancora meglio con il Signor Mazzarella, una lenza con appese delle nappe, il suo gioco preferito assieme a Lucio, peluche di luccio che dorme con lui nella cesta. Io sto seriamente pensando di riuscire a scendere un week end. Solo che ho predicato per sette anni lavorativi che è impossibile farlo, e non so sinceramente come potrebbe prenderla Madre.
© Giovanna Amato