
Anna Maria Bonfiglio, Di tanto vivere. Prefazione di Valentina Meloni, Caosfera Edizioni 2018
di vita discorremmo,
dunque d’amore
(amc)
Mi piace immaginare l’universo delle parole poetiche come esplosione di varietà di luoghi, conformazioni e specie: il riparo delle ‘stanze’, la policromia dei giardini, i confini e i varchi delle soglie, e ancora fonti, canali sotterranei, grovigli di lamiere e spuntoni di rocce, balconi fioriti e terrazzini abbandonati con tettucci di plastica smangiucchiata, ciuffi d’erbe odorose impertinenti nel paesaggio arrugginito di uno sfasciacarrozze. Luoghi, conformazioni e specie che attraggono per incanto, oppure, al contrario, per attrito, che avvinghiano, che urtano, che sostentano, che svuotano.
Di tanto vivere di Anna Maria Bonfiglio è il libro di poesie che, con un’aspirazione che correva avanti alla coscienza, attendevo da tempo. Nell’universo delle parole poetiche è la promessa, che, qui realizzata, si manifesta con impeccabile chiarezza, quasi fosse la prima volta. È la promessa dell’angolo della conversazione che non teme per la propria esistenza, perché sa resistere, guardando di volta in volta in faccia “l’ostile”, all’aggressione, al contesto, al lavorio della disgregazione.
A dispetto di interruzioni e lontananze, anche se scaraventata in luoghi e in tempi aspri e arcigni, è conversazione che accoglie, ascolta, canta, sorride, esamina e rilancia, tanto da rendere sempre vivo e nuovo il fluire di contributi dall’una e dall’altra parte. A chi legge la scelta, di verso in verso, di testo in testo, dell’adesione per intima affinità, dello stupore della scoperta, della contemplazione attiva.
Centrale – vessillo e simbolo della poetica di Anna Maria Bonfiglio in questa sua raccolta – mi sembra allora il componimento Discorsi, sia per la struttura e l’articolazione, entrambe distese e allo stesso tempo animate da un desiderio di interlocuzione, sia per un dettato poetico che alterna i tempi verbali del presente e del passato remoto, della constatazione e della rievocazione, in una convivenza – di tanto vivere, sì! – di lucidità e di incanto: «e scrivere di te è pozzo e luna/ ora che un atroce medioevo/ ringhia furore sui deserti giorni».
Come una conversazione – e fosse anche tra “il sé e l’altro sé” – non può che vivere nel numero plurale delle voci, così essa vive e si nutre del variare dei toni: la constatazione delle offese subite («E non stupirti/ se mi vedi vivere alla resa/ contando/ sulle dita di una mano/ quello che resta/ dopo i vandalismi/ e le piraterie/ perpetrati ai miei danni/ con fatale eleganza -», Furti) e di quelle arrecate, seppur confusamente («Così abbiamo ucciso ogni progetto,/ neanche ci stupiamo/ se il silenzio s’attarda sopra i muri/ se la vita continua i suoi giochetti/ contro le nostre sagome di carta.», Lupara bianca), l’interrogazione vibrata («Dov’è la libertà/ che urlava per le strade/ il riscatto dei vinti?», Falsi miti) e il ‘notturno con quesito’ («Cosa sei venuta a dirmi/ con il tuo lugubre canto/ occhiuta civetta?/ Forse non sai che la notte/ mi ha già donato i suoi frutti.», Athena noctua), i dialoghi con l’ombra e con le ombre, le smentite e le conferme su oroscopi e previsioni, il ‘racconto d’inverno’ senza fine e il «raccontarci vita d’ogni giorno», l’aforisma distillato dalle veglie insonni e l’attesa, nonostante tutto di una «rinascenza»: «Svegliarsi e sentire/ la vita che torna –/ un grembo profondo/ per nascere ancora.», Assenza).
Se c’è una conversazione che chi legge non desidera affatto abbandonare, questa è quella iniziata e proseguita da Anna Maria Bonfiglio con Di tanto vivere.
© Anna Maria Curci
Discorsi
I nostri discorsi sul destino:
Edipo che ritorna sui suoi passi
La Morte e L’Impiccato
estratti a caso dal mazzo delle carte.
Difficile durare in questo scarto
dove il tempo annega
in nuvole di umori
e scrivere di te è pozzo e luna
ora che un atroce medioevo
ringhia furori sui deserti giorni.
(La luce barbagliava i suoi languori
sopra i tetti di paglia a primavera,
dall’ombelico buio della terra
nascevano tremori, ululati di di pena
per la ristretta gola del piacere)
Quello che ci dicemmo nacque
a dispetto di tutte le parole
nacque per affogarci di germogli
subito morti sul nastro della sera.
Le carezze si fecero collana
e i papaveri arrossirono d’amore.
Athena noctua
Cosa sei venuta a dirmi
col tuo lugubre canto
occhiuta civetta?
Forse non sai che la notte
mi ha già donato i suoi frutti.
Lupara bianca
Così abbiamo murato a calce viva
(come i delitti di lupara bianca)
i nostri pomeriggi luminosi,
la trasgressione di qualche martedì
sottratto ai doveri maritali.
E non possiamo dire
di avere consumato nella noia
gesti abitudinari,
di avere allineato i nostri
spazzolini su un comune lavabo
dove schiumava un tubo dentifricio
che ti dava ai nervi.
Così abbiamo ucciso ogni progetto.
E neanche ci stupiamo
se il silenzio s’attarda sopra i muri,
se la vita continua i suoi giochetti
contro le nostre sagome di carta.
Falsi miti
Giorni senza futuro
sotto la pietra viva della pena
a marcire scampoli di ore.
Dov’era la piena
non bastano argini
a frenare dissidi e tumulti.
Dov’è la libertà
che urlava per le strade
il riscatto dei vinti?
Davanti a noi oscura eredità
da lasciare alla terra.
