TESTO 1
I fiori mi piacciono di campagna, come me, strappati, come sono stata strappata io. Mi hanno spezzato la vita in due e poi me ne hanno data un’altra, intera, più bella e mi hanno detto – Toh, prenditela e vivila. Anche rinunciare ad una vita è appassire dentro, quando la lingua ti dice che i tuoi pensieri non stanno in piedi, non sono adatti, devi cambiare pensieri se vuoi parlare, devi cambiare gesti se vuoi essere capito, devi rinunciare a te stesso se vuoi essere visto. Gli occhi di una paese non vedono cose che erano viste altrove. Non li vedete nelle stazioni che muoiono? Che quando si ribellano urlano dal dolore perché stiamo spezzando loro tutte le dita, perché con la nostra mano entriamo nella loro bocca e gli strappiamo quel muscolo rosso e pulsante che è la loro cazzo di lingua? Ci fanno proprio ribrezzo quando non rinunciano, quando li vediamo lì a bofonchiare e urlare al telefono senza una ragione che possa essere una nostra ragione. Ma faranno in tempo, fidatevi, a venire a patti con il contratto funebre che voi chiamate integrazione. Io ho cominciato a rispettarlo tanti anni fa, quando tutti dicevano che per me sarebbe stato facile, ero solo una bambina, era poca la vita da uccidere dentro di me. Passavano gli anni e la mamma non capiva, avrebbe dovuto essere facile per me, ero una bambina, e mi chiedeva perché non parli, perché non è facile per te? Volevano tutti che io parlassi la loro cazzo di lingua ma non capivano cosa mi accadeva dentro, volevano che io offrissi al mondo il cadavere freddo delle mie parole, le volevano morte, stese su una bara in bella mostra. Ad un certo punto ho imparato a farlo e l’ho fatto. Così quando hanno capito tutti che dopotutto sono una bambina educata, integrata, ho finalmente potuto cominciare a morire dentro senza essere notata. Ancora adesso sto morendo, perché hanno torto gli adulti, non è poca la vita da uccidere dentro un bambino, che io ancora quando penso al ciliegio della nonna, piango, piango il ciliegio e piango l’uccisione di quella bimba che piange.
TESTO 2
Accade qualcosa di meraviglioso quando si scopre che la lingua esiste. Il mondo diventa all’improvviso un foglio bianco che finalmente si lascia sfiorare. Ricordo con cura la mia prima filastrocca in italiano e il disegno che feci quel giorno: mia madre camminava con il suo vestito verde su una terra marrone come il suo sguardo e stringeva la mano a papà che aveva il mare disegnato negli occhi.
“Mia mamma è bella
come una stella
Mio papà di più
Come il cielo blu.”
Improvvisamente smisi di fantasticare d’essere una principessa che cantava leggiadra mentre un principe si innamorava di lei; avevo cominciato a sognare di poter dire tutte le cose con voce calda e spontanea. Mentre la maestra Rosetta parlava di Don Chisciotte della Mancia, io la osservavo e sognavo di poter parlare, niente più di come faceva lei, che usava tutte le parole e le coniugazioni come fossero una coreografia e ballava, oh sì, lei saltellava di qui e di là con la punta della lingua come se fosse su un palco, ma era immobile dietro alla sua scrivania e l’unico movimento che si vedeva, meraviglioso, era quello della bocca. Alla fine delle lezioni volevo saltare in piedi, alzarmi ed applaudire « BRAVA! BRAVA!», ma non avevo neanche il coraggio di muovere un ciglio, non fosse mai qualcuno s’accorgesse di me. Mi sarebbe bastato poter parlare almeno come il più fesso della mia classe, poter dire almeno una cosa, un lamento, un commento, mi sarebbe bastato avere appena il coraggio di ridere ad una battuta, ma niente usciva dalla mia bocca, nulla che non fosse un << non parlo italiano>>. I mie compagni mi chiedevano perché non parlavo ed io sussurravo di non sapere l’italiano, qualcuno mi chiedeva come stavo ed io rispondevo di non sapere l’italiano, mio padre mi chiedeva perché non avevo amici ed io gli spiegavo che non conoscevo l’italiano.
L’italiano era il sole che abbaglia ed io ero dietro alla muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia, Ecco! Ecco cos’è l’italiano! Ho sussultato sulla sedia sbarrando gli occhi e sono scoppiata a piangere, la professoressa Vecchioni ha interrotto improvvisamente la lezione su Montale chiedendomi se stavo bene «Sì porca vacca, sto bene. Sto sanguinando tutta per via dei cocci di bottiglia, ma sto da Dio » ho pensato. Ero entusiasta, perché finalmente avevo capito dov’ero e dove dovevo cercare le mie parole, avevo finalmente trovato qualcosa che poteva finalmente, sì finalmente (FINALMENTE, FINALMENTE, FINALMENTE!), farmi sentire a casa: la metafora.
Caro Montale, con i tuoi gialli limoni avevi salvato tutte le parole della mia vita, avevi detto loro d’esistere seppur in un universo che non poteva essere questo, ma chi se ne importa? Non c’è nulla di più doloroso per un uomo del dubbio se è vivo o morto. Concorderai con me che è meglio essere una metafora piuttosto che non essere, d’altronde come potrei definire me stessa con un linguaggio terrestre?
TESTO 3
Non so parlare la mia lingua, come uno stolto. Conosco la lingua dello straniero: l’italiano.
Sono un ospite permanente che non vuole andare via, non troppo ingombrante, come l’erba selvatica nei giardini poco curati.
Mi affeziono, come i cani randagi al nuovo padrone, lo difendo, ma so solo abbaiare, non mordo, non ancora, sono un cucciolo.
Non so più coniugare i verbi nella mia lingua e non c’è una lingua abbastanza mia che possa permettermi di omologare le parole alla mia carne. La mia carne è tutto e questo non le permette di essere qualcuno.
Mi so adeguare al linguaggio delle persone, al loro stile di vita, tanto da poter essere invisibile, un ospite leggero, con il sorriso sulle labbra. Il mondo è nei miei occhi un libro aperto, prevedibile.
Nella mia stanza c’è un libro per fare esempi ad ogni circostanza, conosco la vita dei grandi, sono biblioteca polverosa di modelli da seguire, da ammirare, da invidiare, da compatire e disprezzare.
È leggibile, su di me, la penna di altri. Non sono io stessa creatore con radici solide, ma opera di miscugli, schizzo su cui ci hanno messo mani due artisti troppo diversi, pianta spiantata e ripiantata, colori dell’est e lingua straniera, impeccabile esperimento di una geografia pazza, più bizzarra di certi scienziati.
È come essere tutto, soffrendo di non essere nessuno, fingendo di essere qualcuno.
TESTO 4
Io e te non parliamo la stessa lingua. Me ne sono accorta tanti anni fa, quando sono arrivata in Italia. I miei genitori conoscevano delle parole italiane, ma non parlavano italiano. Quando parlavano erano goffi ed io mi vergognavo tantissimo. Non parlare – pensavo – piuttosto taci, tanto non stai dicendo quello che stai dicendo. Era ridicola mia madre. Non diceva quello che voleva far dire alle parole, le persone l’ascoltavano fino alla fine per educazione e la guardavano come si guarda un handicappato che si morde la lingua, con la fretta e l’impazienza che finisse quella cazzo di frase, che tanto della frase non gliene fregava niente a nessuno. Io la guardavo e mi vergognavo. La stessa donna che nella sua terra era affascinante e intelligente, qui era penosa. Anche mio padre, che in casa aveva le spalle grosse e batteva i pugni sul tavolo, fuori era un insetto schiacciato dalla lingua. La lingua è una rana che mangia le mosche, lo straniero è un insetto che fa bzzzz intorno alla lingua. Allora decisi di farmi muta. Non ho mai voluto imparare la lingua, la lingua aveva tolto dignità ai pensieri dei miei genitori, li aveva resi ridicoli e stolti, non volevo che lo facesse anche con i miei, piuttosto sarei stata zitta per sempre. Per più di dieci anni, non ho detto nulla a nessuno, nulla che non fosse strettamente necessario. Per più di dieci anni ho solo coltivato odio e rabbia cattiva verso la lingua. L’undicesimo anno sentivo la lingua dentro di me, era entrata con la forza e mi si annodava nello stomaco come la merda nella pancia di uno stitico. La lingua voleva essere defecata, doveva essere detta, era una questione di sopravvivenza. L’uomo, se non comincia ad esistere, muore. Gli italiani sono un popolo straordinario, avete una lingua succosa e densa come il paté di olive nere. Io mi ci struscio, è una vera e propria perversione. Mi consumo letteralmente in lei, assorbe la mia Moldavia, il mio viaggio, la vergogna, i bambini che giocano con le mutande rotte a Casunca, il corpo scheletrico che aveva mia madre, lo sguardo gelido di mio padre incazzato con la sorte, il grembo caldo della nonna. La vostra lingua ha assorbito la mia vita, la Moldavia intera e io non faccio altro che darmi e darla alla lingua. La scrittura o la vita, aveva detto qualcuno. La lingua o la morte, dico io. L’italiano o la morte. Non mi è rimasto più nulla che possa essere detto in una lingua che non sia la vostra. Vi sto dicendo che siete straordinari e che vi corro dietro con tutte le forze che ho, con tutta la vita sulle spalle e non vi incontro mai.
TESTO 5
Figlia adottiva
di una terra che non mi ha partorita,
portatrice sana
di una lingua che non mi ha concepita.
Affetta da sangue lontano
che mi ha espulsa,
repellente di povertà.
E taccio, in parole senza radici
come un quadro di colori mai esistiti.
Chi è maestro di quest’insignificante allegoria?
A chi sanguina, dentro me, questa follia?
TESTO 6
Nelu crede che il suo matrimonio non abbia funzionato perché da quando sta qui non è più andato in Chiesa. Adesso si sveglia presto ogni mattina, accende una candela, recita tre volte Tatăl Nostru, beve un goccio di aghiasmă e poi vive la sua giornata. I miei bisnonni andavano in Chiesa ogni domenica, Tătunea sistemava due fazzoletti di stoffa per terra uno accanto all’altro, aiutava Mămunea che era cieca ad inginocchiarsi e poi si abbassava anche lui, elegante e discreto le stringeva la mano vecchia e stanca e le accarezzava le ossa deboli e doloranti sul pavimento duro e freddo. Anche ora che è vedovo lui porta sempre due fazzoletti in tasca e dice sempre che sua moglie è nelle sue ginocchia. Nelu tiene il “Post”, è una cosa tipo la quaresima, ma devi mangiare vegano per un mese prima di Pasqua. Non lo aveva mai fatto prima in tutta la sua vita. Passa i venerdì sera con dei Marxisti ad una riunione della quale non capisce niente, ci va per principio. Si potrebbe dire che Nelu sia un uomo di principio. Forse per questo non ha mai nemmeno voluto imparare bene l’italiano, lui è moldavo e quando ti rivolge la parole, impone il suo essere straniero, la convinzione del suo essere. Ti parla con la stessa forza del ruggito di un leone, ti dice con lo sguardo – Io ci sono, sono qui di fronte a te e te lo impongo, ti impongo la mia esistenza, l’idea del fatto che esisto, il mio dolore che affronto come se fosse un esercizio fisico, una prova militare, devi dormire scomodo questa notte, il cibo deve rimanerti in gola, non devi fare altro che pensare alla mia sofferenza, la mia sofferenza è una disciplina e tu devi avere costanza. La mia scrittura assomiglia molto a Nelu, è mozza e difettosa, ma si impone, impone quella cosa che mi impone Nelu quando mi guarda.
L’UOMO NERO 1
L’uomo nero era sul corso Cavour alla fermata dell’autobus e urlava al ragazzo accanto – Tu chi era prima?
Diceva anche altre parole che facevano una fatica tremenda ad essere dette, uscivano completamente monche e sbagliate, ridicole, fuori luogo, senza alcuna cognizione logica, sembrava fatto, ubriaco, ma non lo era.
Intercalava con – Va’ in mona! – lanciandosi con violenza il braccio all’indietro.
Non mi ricordo le parole che diceva perché non erano quelle le parole che diceva. Per esempio, quando disse – Io no paura di Dio! – in realtà avrebbe voluto dire tutt’altro, ma era questa una delle poche frasi che conosceva, mentre quella cosa che aveva tutta questa urgenza assurda di essere pronunciata, non ha potuto che morire umiliata e rassegnata in un – Io no paura di Dio!
Ma cosa ne vogliamo sapere noi? Noi chi eravamo prima?
È come quando ti costringono a guardare mentre tagliano la pelle a qualcuno: percepivo l’esercizio di violenza che la lingua stava facendo su di lui. Riconoscevo il sangue di tutte le parole che non potevano essere dette eppure tentavano ancora e ancora e ancora rendendo disperato quell’uomo. Teneva la testa tra le mani e gridava – Tu chi era prima? – come un cane che ha due piedi incatenati al muro e vuole correre via, continua a tirare finché riesce finalmente a strapparsi dalle catene, ma non può più correre senza le due zampe rimaste legate al muro e, come il cane si gira a guardarle sanguinare, così lui urlava – Va’ in mona!
L’UOMO NERO 2
Mi sedetti sulla panchina accanto per guardarlo, era meraviglioso. Era l’espressione del grido che non ho mai avuto il coraggio di urlare. Il mio peggior incubo la cui mancata realizzazione mi ossessiona da sempre. Godevo. Godevo per il fatto che lui fosse arrivato a ciò che ero io, più forte urlava e più mi si conficcava dentro procurandomi un piacere inestimabile. Eccola lì, pensavo, la mia disperazione che rimbomba sul Corso Cavour, apre le finestre dei palazzi, scandalizza le vecchie, spaventa i ragazzini, vestita da uomo nero. Che riflesso straordinario, quasi Lacaniano. È come guardarsi in uno specchio per la prima volta e avvertire la separazione di sé stessi dal flusso scorrevole della vita di tutte le altre persone e dalla propria, ma in questo caso meglio: sfogare la propria mostruosità disturbando quel flusso con un’aggressività spaventosa e rozza, fuori luogo, fuori dal linguaggio, dall’educazione, straordinariamente repellente, pur restando elegantemente seduta su un panchina, invisibile, mentre il proprio riflesso si prende tutta l’umiliazione. Godere dell’azione senza agire, come solo in sogno si può fare, come nella realtà non si dovrebbe poter vivere e neppure raccontare, perché non ha nulla a che vedere con l’ordine della vita e tantomeno del linguaggio.
Una volta avevo sognato di avere il corpo di una neonata e la testa da adulta, mi mangiavo contemporaneamente il piede e la lingua che erano contemporaneamente il linguaggio e la terra stessa, la terra della Moldavia e quella italiana. A tutte le donne capita di fare l’incubo in cui camminiamo nude per strada, non depilate, piene di peli sotto le ascelle, sulle gambe, sul ventre. Ecco, stava accadendo in quel momento, ero nuda davanti a tutti e li disturbavo, li scandalizzavo con la mia grezza, volgare nudità creando in loro un disgusto e un disagio profondo, ma non mi vergognavo, perché il carico intero di vergogna andava tutto a quel povero disgraziato.
L’UOMO NERO 3
L’uomo nero aveva visto che lo fissavo e godevo. Non come quelli che passavano dicendo – Ecco cosa vengono a fare nel nostro Paese! – soddisfatti d’avere ragione. Era un’altra goduria, era corporea, intima.
Mi si avvicinò osservandomi come se fossi un’extraterrestre e mi si piantò di fronte: mi vedeva estranea e gelida, non sapeva di starsi guardando allo specchio. L’unica cosa che vedeva in me era la borghesia, la ricchezza fatta di bei vestiti caldi e ne era disgustato. Iniziò a fare dei movimenti rumorosi con la bocca, raccolse tutta la saliva che aveva in corpo e mi sputò in faccia.
Odorava di borș moldavo, un minestrone con brodo di gallina, verdure e cipolla bollita. Mi pulii la faccia tirando fuori un fazzoletto dalla borsa e improvvisamente mi venne uno spasmo di vomito.
Vomitai dietro alla panchina, sull’asfalto gelido, sotto gli sguardi gelidi della gente gelida, tutto il pranzo mi uscì dalla gola gelida. Alzai di nuovo gli occhi per tornare a guardarlo in faccia e lo vidi ridere, rideva forte con rimbombo e ritmo, rideva la sua voce da nero, tanto che la risata sembrava un pezzo jazz, rideva nella propria lingua. Rideva di me, di me che sono lui, rideva di sé stesso, si contorceva dalle risate ed era felice. Tutto il mondo ride nella propria lingua e anche quando si canta, non si può che cantare nella propria lingua. Pensa ai cantanti brasiliani quando cantano in italiano, pensa a Toquinho e a “Roma nun fa’ la stupida stasera”. La propria lingua è una musica di sottofondo, un tamburo che dà il ritmo ad ogni singola parola, un suono che ho perso.
E ancora osservavo l’uomo nero con uno sguardo pieno d’invidia. Io non rido in nessuna lingua.
2 risposte a “Questioni della mia lingua – di Alexandrina Scoferta”
L’ha ribloggato su Paolo Ottaviani's Weblog.
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Grazie; sono dei racconti molto belli, ho patito anche io con « la lingua » :)
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