La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… è il titolo dell’ultimo libretto di Cesare Viviani, in cui si raccolgono pensieri in buona parte inediti e in minima parte prelevati da opere precedenti. Chi ha seguito o studiato la parabola poetica e saggistica di Viviani troverà confermate e riprese le sue tesi, che si possono ricondurre a due fuochi: la poesia è qualcosa di indefinibile che mette l’uomo a confronto con un limite; gli ambienti letterari soffocano l’aspirazione alla poesia e si reggono su implicite convenienze.
Sulla prima questione è arduo esprimersi tanto a favore quanto a sfavore. Viviani usa parole che si sciolgono davanti alla domanda “che cos’è?”: assoluto, limite, indicibile, vuoto, e svariati sinonimi. L’originalità di Viviani, a mio parere, non riguarda le sue tesi, quanto l’impostazione: legando il concetto di poesia a termini astratti, si forma una teoresi che si sottrae alla descrizione e alla falsificabilità. Il concetto di poesia viene situato in uno spazio alternativo a quello del linguaggio, in un buco dell’esperienza; diventa quindi sfuggente e attraente, proprio perché finisce per produrre afasia. Ma se Viviani non sente il bisogno di dimostrare, grazie anche alla forma del frammento, espressione comunque di un pensiero coerente, coeso e centripeto, su quali criteri possiamo dire che il suo discorso è autorevole?
La sua costruzione può poggiare, oltre che sul principio d’autorità, sull’appello a una credenza collettiva, secondo la quale la poesia è un’entità che si sottrae alle pinze della definizione. Non è quello che ci hanno sempre insegnato? Eppure se da una parte abbiamo interiorizzato questa idea, dall’altra proviamo fastidio per gli assiomi e di continuo tentiamo di uscire dal loro angolo cieco. Per queste ragioni il testo di Viviani può generare reazioni bifronti, o meglio: fascinazione dopo avere, eventualmente, criticato e scremato alcune sue posizioni.
Da una parte è troppo comodo spingere la poesia laddove nessuno possa più afferrarla, usarla, staccandola dalla corrente della vita quotidiana. Personalmente ritengo che una buona poesia debba poter essere utile quanto un buon discorso politico, una buona ricerca storica, un buon atto intellettuale. Cioè qualcosa che non finisce nella nostra interiorità dando materia a un’esperienza indicibile, ma che ha la possibilità di prolungarsi e completarsi in una conoscenza più complessa.
Dall’altra parte un moto di entusiasmo per l’adesione a quello che già pensavamo: se rinunciamo a definirla, la poesia, nonostante tutti i tentativi di categorizzazione, conserva intatta la sua essenza, mai appiattita. Intorno le resta l’aura di un atto che si rinnova attraverso le epoche e le lingue, la fascinazione per un edificio di parole, sintomo di sensibilità, di ingresso in un’esperienza in fondo inspiegabile, di vibrazione dell’interiorità al suono delle sillabe. Allora in questa luce un discorso sulla poesia merita di estendersi anche in una zona non argomentabile, non razionale. (Mi viene in mente un passo che il norvegese Karl Ove Knausgård ha dedicato all’argomento, in Un uomo innamorato, dicendo che la poesia non si apre a tutti e alcuni possono anche intestardirsi a «vivere una vita nella letteratura, magari come critico o come docente universitario, forse come scrittore, perché è possibile mantenersi a galla in quel mondo senza che la letteratura si apra mai»).
La seconda questione centrale del libretto riguarda invece la socialità della poesia: relazioni, scambi, opportunismi, convenienze, compiacenze, narcisismi. Qui Viviani sa di mettere il dito sulla piaga. La sua critica mi sembra sintetizzata in un’immagine: la proporzione tra potere editoriale e squilli del telefono. Venuto meno il primo, sono calati i secondi. Una testimonianza eloquente e triste, quasi una conferma delle parole di García Lorca, ovvero che in mezzo a poeti, critici e ammiratori si trovava tra le persone che gli volevano meno bene.
Sapendo che Viviani è un uomo di passioni limpide e non di facili compromessi, avrà anche intuito che i contenuti e i modi del suo pensiero avranno poco spazio oggi, perché viviamo in un tempo frenetico, in cui l’autopromozione conta più del valore; allora può darsi che il suo segnale sia un’indicazione più per il futuro che per il presente, perché sa, come ogni poeta, che il lavoro dell’arte impiega il suo tempo a farsi riconoscere e parla più vivamente quando il mondo che l’ha prodotto è scomparso.
© Damiano Sinfonico
Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che…, il melangolo, Genova, 2018, pp. 79, € 7,00