Daniela Andreis, L’ottavo giorno della settimana, LietoColle 2017
Intimità è una meta, intimità è un concetto, intimità è una dimensione dell’esistenza. “Intimità” è parola che va pronunciata con cautela e avvicinata con la cura di chi si fa responsabile di una propensione alla discesa, di una immersione nel profondo, così come di un dialogo senza remore e barriere, senza secondi fini, senza tentazioni egocentriche.
Travolta dalla sua versione pubblicitaria, con prodotti strombazzati per il tramite degli aggettivi “intimo”, “intima”, tirata per il collo del superlativo – così càpita – nel nome di una catena di punti vendita, all’intimità non sono dedicati né i giorni feriali, né i giorni festivi della settimana. Daniela Andreis, come recita il titolo della raccolta qui presentata, proprio all’intimità sembra riservare, preservandola in tal modo dalle grottesche e mercantili deformazioni, L’ottavo giorno della settimana.
È di un’intimità perduta e ritrovata che si tratta, di un’intimità cercata e cantata, di un’intimità più ampia, quella degli amati lari, dei sogni inseguiti e laceranti nel distacco, della rievocazione onesta nel dolore. Con l’aggettivo ‘onesto’ (anch’esso, in verità, alquanto strattonato e stropicciato da più parti, ma non certo qui, nella poesia di Daniela Andreis) intendo la veritiera limpidezza del dettato che si sposa con il dolente comprendere.
In tale felice – pieno, riuscito – connubio, anche i neologismi che fanno la loro comparsa (quelli rimasti, in misura più limitata, purtroppo, rispetto alla versione originaria che ho avuto il privilegio di leggere in anteprima), anche i termini nel dialetto veronese appaiono tutti necessari al dire e a ciò che si intende dire. Progettualità e intenzionalità della parola poetica e della sua composizione rifuggono da inutili sfoggi e da fastidiosi fumi, donando efficacia alle figure retoriche, tra le quali lascia un’orma profonda la similitudine della merla.
Le citazioni in epigrafe a ciascuna delle tre parti che compongono la raccolta e presenti anche all’interno delle sezioni – da testi di Osip Mandel’štam e di Gesualdo Bufalino, amati lari e numi tutelari anch’essi, da testi di Nadia Agustoni e Mariangela Gualtieri, “austere viandanti”, per dirla con le parole di Rilke nella prima parte del Libro d’ore –, testimoniano l’intreccio di radici e letture, che è carne e sangue, vita e dolore, scontro con il verdetto, constatazione del passaggio e traccia di resistenza, che sa farsi anche soffio vitale.
© Anna Maria Curci
È una sera come questa
in cui i tuoi capelli sono la sola cosa
che si muove
in cui tutte le ombre sono ferme
nelle strade labili di dicembre;
in una sera come questa
un’altra frase se n’è andata
con la tua risata crinolina
e una timidezza sfiorata:
mettiti nei miei panni
nei miei comuni affanni,
che nessuno ora indossa le scarpe
come facevi tu
nato con cent’anni
che per me solcavi le dure nevi di pianura
con cappotti infeltriti
col timore
che i miei piedi
andassero in cancrena
mettiti sulle mie spalle
sonagliera
col permesso di sbirciare da una scapola
la mia paura.
Il mio amore
è come la merla
che guarda con un occhio solo
e l’altro lo riserva;
scende a terra, imbecca le paglie
le migliori per fattezza, resistenza,
non fa niente se dovrà fare mille atterraggi
zigzagare pericoli
sentire una minaccia
un muoversi di foglia
il mio amore è come la merla
saggia la terra
decide la casanidiata
la biforcazione ombreggiata
ha studiato l’inganno della fretta
ogni freddo, il fortunale, l’arte della dispensa,
non si sa se pensa
da quel solo punto di vista,
l’istinto è alto, incalcolati i decolli e i paurosi atterraggi.
A casa tua è l’ottavo giorno della settimana,
il gatto di pezza è sul quarto gradino del nubilato
bordato di filo di lana
ed io, la cortigiana,
l’amore sottovetro,
avvolta nel bozzolo che era un gomitolo
con i piedi nudi
con i piedi fuori dal tempo;
e ancora non so che giorno sia
se il giorno otto sia il primo
o l’omega del calendario,
un malinteso
vento girato al contrario dal treno;
dev’essere il giorno
in cui mi annozzo
quest’unico giorno eccedente
splendente
mentre scendi di sotto;
così rompo la teca, snodo il gatto
addobbo mille tavolate,
ditali di miele per gli invitati
accendo le torce per la notte
mi strofino le cosce di rosa
la pelle di campanule
divento una Dafne
mi allaccio fiocchi al corpetto
con i piedi nudi
davanti al tuo busto;
non c’è tempo
è l’ottavo giorno del solstizio:
sugli annunci ho aggiunto il tuo nome al mio nome
io e te stipati,
appaiati,
nereidi tra i flutti;
preparo il sentiero,
ti aspetto per rito
al platano
il minuto è deciso, l’albero è tronco
e arrivi all’ottavo anello
un coro d’opera, inno, colonnello di un decumano,
mio mondo millenario;
dio si prenderà un permesso
sarà testimone che esistono
un adamo in grappolo e un’eva di mosto
e per distrazione divina
lascia stare il banchetto
non trasfigura il bastevole
non moltiplica nulla
alle nozze che si tengono nella tua casa
nell’ottavo giorno della settimana.
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Daniela Andreis, giornalista, vive e lavora a Verona. Ha pubblicato raccolte di racconti e fotografie nel libro La terra piana, Nuoviorizzonti, 2001, e I maestri del tabacco, Nuoviorizzonti, 2004. Ha rielaborato storie della cultura locale che sono state portate in scena da Gianni Franceschini. Nel 2009 ha curato la biografia Due centimetri tra mare e fiume. Storia di Mario Crocco. Nel 2013 pubblica la raccolta di poesie La casa orfana, edita da Lietocolle.
Una replica a “Daniela Andreis, L’ottavo giorno della settimana”
Il tono intimistico elude sapientemente le trappole del luogo comune: e questo per mezzo di uno stile che pare aver trovato una propria tracciabilità personale, alla quale concorrono la briosa grazia musicale delle rime e la declinazione fiabesca del sentimento (la relazione è trasfigurata nell’immagine della traversata che conduce i due pellegrini sperduti in una landa spazzata di nevi): l’altra persona, destinataria della continuata allocuzione poetica, diventa l’angelo che salva, che mette in fuga le ombre, che allarga le prospettive dell’accontentarsi quotidiano, che schiude un varco sulla catena ordinata dei giorni, dono epifanico e inatteso, indicando al consumarsi del tempo un approdo che non si compie in una dimensione cronologica bensì mitica. Colpiscono poi alcune invenzioni metaforiche, lussureggianti e abbastanza fresche da dissimulare la derivazione classica o biblica di una parte del lessico: riverberi di quell’onda di infantile, infuocata ebrietudine che ricolma l’attesa, la giubilante impazienza del nuovo incontro amoroso, in un climax di messianismo erotico al quale l’Autrice consacra gli altari di una propria devozione quasi religiosa, tanto accesa da rimpiazzare il dio della fede con l’innocente delirio dei sensi.
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