dal ramo del giorno che – inavvertito –
si fa alto, il tuo sguardo viene a poggiarsi
sulle mie palpebre di sale fino
dietro, pupille agitate – lunghi
corridoi dove ti chiamo, dove
ti cerco e non ho voce udibile –
nascosto e vicino, un tuo fiato
mi dice del bene (allora io dormo,
torna placido l’involto sonno)
*
ha rami già curvi il salice dove inizia
a pesare la notte, e noi si camminava
allo zenit – senza ombre – lo spazio
ad issare un sole su ogni fiotto di pioggia
ad ovest la strada rimane pari ma
si allunga l’ombra, ora tasto il terreno
per non pestare i silenzi importanti
(ho imparato ad ascoltarne l’arrivo)
il cammino ha fianchi stancati, ti guardo
e non ha asola il demone del tempo
nei tuoi occhi (ringrazio Dio per lo sciame
di lucciole che ancora ci confonde)
ognuno a suo modo ha trattenuto in sé
la leggenda di una sfumata primavera
*
a te che a sera rientravi e d’inverno
avevi addosso l’odore del vento, tu
il gigante io lo scricciolo, e m’abbracciavi
e colmavi di pane la madia della mia fame
(non vi furono altre braccia che mi resero
mai così densamente regina)
*
torni a cadermi in seno, bimbo
di ieri nell’universo mamma che il tempo
non intacca e deterge, regola a ricomporre
le carte sparigliate delle insondabili vivenze
ha piccoli passi questa sera di abissi
e non so se – come una volta – riuscirò a lasciare
la serenità della fiaba dietro le tue palpebre
perché ondeggino al sonno sereno di una volta
*
di noi verso la marina –
un vecchio sulla panca
il castello aragonese
che ci aspettava da sempre
con noi verso la marina –
la nostra ombra un cucciolo
acciambellato sulla strada, sagoma
sola cucita ad ago sottile
per noi verso la marina –
sui nostri corpi tornava a camminare
l’ombra, lenta si sdoppiava e
s’allungava in avanti, restando
unita ad altezza di cuore
© Angela Caccia, da Piccoli forse, Milano, Lietocolle, 2017.