Lucianna Argentino, Inediti #2
Abbiamo attraversato la notte in ginocchio
perché la misericordia divina
ci trovasse preparati per un nuovo impasto
e un respiro più prudente e giusto
ci fosse alitato nelle narici.
Officianti il sacramento
di quelli cancellati dalle mappe
ma ai quali è affidato il compito
di testimoniare la grazia
– quelli a cui molto sarà perdonato
perché molto hanno amato.
***
C’è voluto tutto il tempo e una gelosa cura
perché il giorno trovasse la sua voce
e una grazia acerba lo battezzasse col suo vero nome
vero sì, ma distante ancora.
Ancora nell’avvenire, ancora dove lo vorrei
pelle del mio abisso e senza distanza dirgli:
toccami, ripassami l’anima con le tue mani,
il corpo con i tuoi occhi; fammi il tuo genitivo
di pertinenza, riscrivimi la desinenza.
***
Scontata la pena da pagare,
offro in sacrificio la decima del mio coraggio
per il riemergere di lui dalle carni
– dannazione e salvezza
a testimonianza dell’indivisibilità di spazio e tempo
per me che l’ho aspettato
confidando di conoscere la mia verità
attraversando la sua. Guardando negli occhi
gli occhi opachi del suo passato,
mentre mi cresceva lontano, ma già veniva,
già si avvicinava. Ma non finiva – mai finita –
l’attesa di lui che mi possiede.
***
Io sono l’agnello
e lui la lama cui offro il collo
il coltello per il sacrificio
a un dio che dimora nel mio ventre.
***
La carità delle sue mani
quando ho fame
e sfamano il mio desiderio;
quando ho sete
e dissetano la mia arsura;
quando sono straniera
e mi accolgono nella loro terra calda;
quando sono nuda
e mi vestono della loro nudità;
quando sono malata
e curano il mio male nutrendomene;
quando sono prigioniera
e visitano la mia cella con passi impazienti.
La carità delle sue mani
infine assopite nel nostro segreto vegliare.
***
Vi confido che tra gli occhi di lui
e i miei c’è l’attesa intorpidita e dolorante,
il coraggio del respiro, il formicolio dello sguardo
a lungo immobile davanti alla pagina
nel cui nome separo
le acque di sopra dalle acque di sotto.
Creo terra con frutti in abbondanza,
d’obbedienza sazio gli angeli
in lode di lui che mi rammenda gli strappi,
fa l’orlo ai miei abiti.
***
Pensami vicina
come un sentiero
sciolto dalla meta
buono per i lombrichi e le api
e per i passi di angeli
senza annunci.
Ora che sono per te
colei che moltiplica
e ho l’andamento
dei verbi all’infinito.
***
Venuto al senso dell’intimità lui
rilascia fede e apertura al dono
fa cantare in me la slogatura del tempo
con parole nascoste
nell’impronunciabile suono d’organo
che sale dalle navate del suo corpo
ed è come a Damasco
– la cecità e la visione.
***
Di spalle mi affido al suo abbraccio
mi fido del suo corpo contro il mio corpo
nel sonno che porta a compimento
l’opera della materia e fonda l’invisibile.
Lui mio settimo giorno, mia terra promessa,
altare consacrato dal canto che dalla mia bocca
riverso nella sua bocca – tabernacolo
di baci e di parole a custodia delle braci
per le ceneri da cui siamo risorti.
***
Attracca nel porto largo
del mio grembo lui – nave ammiraglia –
sbarca nella voglia che delle sue mani
supplica la mia pelle,
lui che abbracciandomi
abbraccia la mia vita e la mia morte.
È l’elemento assorbente
– lo zero gravido d’infinito –
poi mi penetra e apre radure
tra il mio corpo e la mia anima,
crea un luogo che non è dell’uno
né dell’altra.
***
Le previsioni furono imprecise
sul tempo e sul luogo
ma indovinarono l’intensità di ciò che accadde.
Ne vidi i segni nel suo sguardo di lupo
tra bagliori di muschi e di licheni
e la luce dei tramonti nella steppa.
Ora sento lui fiutare il mio desiderio, inseguirlo
catturarlo, tenerlo in bocca
in un nido di fiato e di saliva.
Mi abbandono a lui quando spinge e spinge,
oltre e più oltre il piacere
e liberiamo il corpo dall’anima
del corpo facciamo una perla di purissima lucentezza
un tempio di perfettissima innocenza.
***
A che pensi?, si chiedono
quando i corpi tacciono
ma parlano dentro da una opaca pienezza,
i muscoli obbediscono alla nuova postura
e l’abbraccio si fa orizzonte.
A che pensi? e lei che scrive
chiude gli occhi, ascolta il dettato
ricrea la legge – ogni volta – nel silenzio
che porta in braccio la parola come una sposa
attraverso la soglia dell’essere
per abbordare nel luogo in cui
carne e spirito sono una sola cosa.
***
(infine andando)
Potrei trovare infinite metafore per descrivere ciò che mi accade, ma nessuna lo direbbe meglio se voi aveste la possibilità di guardarmi mentre lo guardo. Sentireste il vento destarsi dal petto degli angeli e tutto sarebbe infinitamente più chiaro di ogni più chiara parola. Allora si mostrerebbe la sola preziosa lucentezza del mistero, tutto il suo sacro splendore.
Eppure tutta la sua non-luce.