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David Markson, L’amante di Wittgenstein

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David Markson, L’amante di Wittgenstein, Edizioni Clichy, 2016; traduzione di S. Reggiani e M. Testa; € 15,00

di Martina Mantovan

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In principio c’era il messaggio, anzi i messaggi, lasciati nelle strade da Kate. Dunque, in principio vi è Kate, protagonista del romanzo L’amante di Wittgenstein di David Markson.
Kate è la protagonista; prendiamo questa proposizione come assunto. Kate è la prima persona singolare; e Kate è l’amante di Wittgenstein. Tecnicamente non è mai stata l’amante di Wittgenstein, però, se Wittgenstein avesse avuto modo di incontrarla avrebbero sicuramente avuto molto da condividere. O da tacere. Kate non ha mai incontrato Wittgenstein perché nel mondo di Kate Wittgenstein non esiste: esiste nella sua testa, ma non nei luoghi esterni alla sua testa. Nel mondo di Kate l’esistenza è una condizione logica, non ontologica. Il mondo e la vita di Kate sono tutt’uno perché Kate è il suo proprio mondo: Kate la monade, Kate che ci accompagna nella desolate solitudini dello scetticismo innalzato a principio guida dell’esistenza.

Era davvero un’altra persona che ero così ansiosa di trovare, quando cercavo tanto, o quello che non riuscivo a sopportare era solo la mia stessa solitudine?

Sola, alla deriva su una spiaggia, teatro del deserto di senso dell’ultima coscienza rimasta a popolare la terra, Kate appare come l’unica depositaria del linguaggio, l’unica testimone dell’esistenza del mondo. Affacciata in riva ad un mare di silenzio, Kate dà vita al suo mondo nominandolo, recuperando ricordi e aneddoti dai meandri della sua memoria.

Ed è ovviamente anche nella mia testa.
Ma, del resto, cosa c’è che non sia nella mia testa?
È come un maledetto museo, a volte.
Come se fossi stata designata curatrice di tutto il mondo.
Che è quello che ero e che, per così dire, indiscutibilmente sono.

In un mondo delineato dalla logica, Kate si pone come unica coscienza di fronte a cui l’accadere dei fatti si dispiega: la coscienza di Kate è ciò su cui si infrange la possibilità di rendere vivibile la prospettiva del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein. Se i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo, del mondo si può essere solo il limite, non una parte: il solipsismo della protagonista è dunque l’ovvio risultato della trasposizione pratica del concepire l’esistente come esistente solo in relazione al soggetto.
Kate, centro atomico di un mondo e della narrazione, è pura soggettività: nel monologo senza sosta si cela l’urlo disperato di colei che vede bruciare, sgretolarsi, scomparire, tutto ciò che appariva saldo nel territorio della certezza; il soliloquio oscilla tra follia e profezia, in un lungo e doloroso sforzo di sopravvivere alla consapevolezza del fallimento del cogito ergo sum cartesiano.
Kate comprende, comprende con ogni fibra di se stessa, che non basta il pensiero a porre la sua esistenza ontologicamente al sicuro, per renderla libera dal dubbio e dall’aporia che quotidianamente deve affrontare; Kate sa che il darsi del suo pensiero testimonia solo l’esistenza del pensiero stesso.

Il linguaggio è l’orizzonte entro cui si muove Kate, l’unico labile confine posto dalla sua mente: il romanzo di Markson si trasforma rapidamente in metatesto, seguendo l’esigenza emotiva della voce narrante di dare corpo alla miriade di nomi e fatti che popolano la sua mente, cercando di custodire e salvare il mondo dal nulla metafisico in cui pare essere sprofondato.

Nel frattempo la questione delle cose che esistono solo nella testa continua vagamente a tormentarmi, a dire la verità.
Sostanzialmente perché mi è appena venuto in mente che il fuoco che forse accenderò all’area di smaltimento rifiuti, per vederlo brillare sulle bottiglie rotte, è un’altra cosa che esiste solo nella mia testa.
Se non fosse che in questo caso è una cosa che esiste solo nella mia testa nonostante non l’abbia acceso, il fuoco.
Anzi, esiste nella mia testa anche se probabilmente non accenderò mai il fuoco.
E, a essere sinceri, quello che davvero ho in testa non è nemmeno il fuoco, bensì quel dipinto di van Gogh che ritrae un fuoco.
Sarebbe a dire il dipinto di van Gogh che si può guardare strizzando un po’ gli occhi. Con tutti quei vortici, come in Notte stellata.
E con un certo grado di angoscia dentro, persino.

Una macchina da scrivere su cui annotare il flusso continuo e ripetitivo di aneddoti è tutto ciò a cui Kate si aggrappa; i fogli, ammucchiati uno dopo l’altro, raccolgono i pensieri che si intrecciano e sovvertono qualsiasi ordine spazio temporale, dando vita a relazioni tra fatti possibili perché giocate sull’assonanza,  su deduzioni errate e su false coincidenze. Come Penelope, Kate distrugge con il fuoco ciò che drammaticamente cerca di tessere: nell’atto distruttivo della produzione scritta vi è la consapevolezza dell’ineluttabilità dell’aporia wittgensteiniana. Di fronte al foglio che diviene specchio, Kate conosce l’abisso metafisico della logica monadologica.
Il pensiero errante di Kate si sposta senza tregua tra epoche e latitudini diverse. Dai musei in cui ha vissuto, ai fantasmi della vita precedente, dai resoconti delle attività quotidiane al ricordo di imprese passate, tutto si amalgama in una sintesi che riesce a porre in dialogo lo scrittore William Gaddis (amico di Markson) e il pittore Taddeo Gaddi, in cui un gatto può mettere in relazione Elena di Troia, Rembrandt e Spinoza, oppure una caramella può passare dalle mani di Brahms a quelle di Wittgenstein.
Elena di Troia, Penelope, Clittenestra e Cassandra sono i volti dell’èpos a cui Kate demanda con frequenza l’onere di farsi carico della trasposizione del narrato più strettamente biografico. Nell’identificazione con le donne della tragedia Kate lascia scorgere tra le righe le tracce del suo vissuto: un matrimonio fallito, un figlio morto, una fuga dal senso di colpa e il rifugio nella follia. O nello scetticismo più radicale.

Ora mi viene da pensare che potrebbe essere un romanzo autobiografico che inizia da quando sono rimasta sola, ovviamente.
Per cui ovviamente ci si potrebbe aspettare che parli di più di una persona.
Per quanto dovrei comunque ricordarmi di restare fuori dalla mia testa mentre scrivo.
Ma tant’è.
Potrebbe persino rivelarsi un romanzo interessante, a suo modo.
Un romanzo che parla di una donna che si sveglia un mercoledì o un giovedì e scopre che al mondo non è rimasto più nessuno al di fuori di lei.
Nemmeno un gabbiano.
Escluse verdure varie e fiori.
Questo sì che sarebbe un inizio interessante, ad ogni modo. Se non altro per un certo tipo di romanzo.
Immaginatevi come si sentirebbe la nostra eroina, quanta angoscia proverebbe.
E angoscia di quella vera, stavolta, non un’illusione.
Come quella in cui ti fa cadere gli ormoni. O l’età.
Sebbene tutta la situazione paradossalmente potrebbe apparire come un’illusione di per sé.
E così molto presto la donna si scoprirebbe pazza, è naturale.
Ma la parte successiva la ritrarrebbe alla disperata ricerca di altre persone, in ogni dove, che sia pazza o meno.

La follia di Kate, presunta o reale, non altera la questione ontologica: Kate può essere davvero l’ultima superstite in vita sul pianeta terra, ma ciò non cambia il fatto che la sua solitudine resta fondamentale e invariata, la sua angoscia rimane essenziale e irrimediabile. A Kate non resta che tracciare messaggi sulla sabbia, parole che portano già in sé il destino dell’estinzione. Kate si avventa contro i limiti del suo mondo, del suo linguaggio: può descrivere i fatti, ma non può esprimere il dolore che ha dentro. La solitudine di Kate deriva dal silenzio, dall’indicibilità a cui perviene Wittgenstein con la proposizione numero 7 del Tractatus: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Kate deve abbandonare la scala con cui si è innalzata, per poter tornare tra gli altri uomini.
È il silenzio delle onde del mare a cancellare i segni scritti da Kate: sono l’etica, l’estetica e la credenza religiosa su cui si pone l’impossibilità del giudizio assoluto, su cui la logica non ha potere di verifica. E sull’etica, sulla tendenza fondamentale dell’animo umano, Kate può riporre i suoi quesiti trascendentali, le insolubili questioni che non possono trovare risposta univoca.

Di quante cose si diventa consapevoli tardivamente.
Il che mi fa pensare che la frase che mi è venuta in mente ieri, o l’altro ieri, sul vagare attraverso un infinito nulla, sia di Friedrich Nietzsche.
Per quanto credo di non aver mai letto una parola di Friedrich Nietzsche.

David Markson ha il raro merito di aver scritto un metaromanzo filosofico dalle implicazioni profonde e ben congeniate. Attraverso un linguaggio scarno e diretto, fatto di periodi brevi e da una scansione ritmica incalzante, Markson crea una realtà inedita e rigorosa, dove l’aneddotica si sposa con la citazione e l’omaggio, reiterato ed esplicito, a suoi numi tutelari. Il riferimento all’immaginario culturale, musicale, letterario, mitologico, cinematografico diviene elemento cardine di una narrazione che procede per nodi teorici che intrattengono tra di loro relazioni spesso accidentali. L’estrema capacità di confrontarsi con il pensiero wittgensteiniano, mostrandone le implicazioni pratiche, fanno de L’amante di Wittgenstein un’opera incredibile; un’opera che dal flusso di coscienza perviene alla consapevolezza dei limiti, al crinale su cui si affaccia il linguaggio. Ed infine, al silenzio.

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© Martina Mantovan


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