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Jorge Baron Biza, Il Deserto

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Jorge Baron Biza, Il deserto, La Nuova Frontiera, 2016, € 17,00, ebook € 8,99, traduzione di  Gina Maneri

di Martina Mantovan

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Jorge Baron Biza è l’autore di un testo unico e totalizzante: El deserto y su semilla; è la confessione, brutale e spietata, di un affogato; di un uomo che riemerge dopo un’infinita apnea da una vita solcata dalla tragedia metodica e dilagante. La vicenda narrata ne Il deserto è la storia di Jorge, figlio di Raúl Baron Biza, politico argentino e autore controverso, e di Rosa Clotilde Sabattini, figura di spicco dell’opposizione al  potere peronista.
Figlio di un’unione travolgente e deleteria, l’autore si fa testimone di una tragedia cupa e disperata: la narrazione inizia dall’urgenza dei fatti, dalla voragine in cui la famiglia del narratore precipita di fronte alla rottura finale. La storia autobiografica de Il deserto si apre dunque con la corsa disperata verso un ospedale: Arón (Raúl Baron Biza), posto davanti ai documenti  legali per il divorzio con la moglie Eligia (Rosa Clotilde Sabattini), rifiuta di accettare scagliandole un bicchiere colmo di vetriolo in faccia. Da questo gesto dirompente si propaga il tracollo di una famiglia, sommergendo tutti, uno a uno, in territori insondabili.
Jorge Baron Biza si pone così al centro della scena, alla presenza del padre e della madre nello studio dell’avvocato, nell’attimo in cui inizia a dissolversi il volto della madre e, con esso, tutto il loro mondo. Narrando la rovina egli opera la catarsi necessaria a porre un limite alla deflagrazione dei significati relazionali e familiari: lo sguardo empirico con cui analizza nei minimi particolari le cavità epidermiche e le depressioni emotive è la lente con cui poter osservare, senza restarne accecato, la vastità del dolore.

Mi piaceva credere che la nuova rigidità dello spazio sul volto di Eligia frustrasse i piani di Arón: bruciandola, non aveva eliminato la carne che amava, ma l’aveva sublimata per demolizione, come accade con le rovine romantiche. Così come qualunque occhio ricostruisce per istinto le geometrie incomplete di una pavimentazione, anch’io ricostruivo con i minuscoli frammenti sopravvissuti della sua faccia. Il mio sguardo riempiva a memoria le attuali ellissi della sua figura, e il ricordo intensificava ciò che ormai non si vedeva più.

Il deserto si configura come un trattato di speleologia esistenziale: l’esplorazione di territori inediti sul volto della madre si trasforma in un’investigazione minuziosa e straniante della temperie psicologica che vi sta dietro. La distruzione delle forme note, l’affiorare in superficie dei meandri della carne ferita espongono la crudeltà e la valenza simbolica del gesto: il vetriolo brucia e corrode, traccia un confine netto tra il prima e il dopo, tra la costruzione e la decostruzione.
Sulle rovine dell’identità perduta, Baron Biza osserva il ricrearsi lento e faticoso della riappropriazione del dato immediato della personalità. Ad ogni lembo di pelle guadagnato pare rinsaldarsi un frammento d’identità, togliendo terreno all’espandersi del deserto; di un deserto di senso che arde e si alimenta dell’aridità di qualsiasi sentimento. Ma è proprio allora che il dolore prende forma, stratificandosi come roccia, trascinando nel fondo silenzioso e oscuro di un male che trova unica espressione nel suppurare della materia ustionata: è l’immobilità cupa e arresa di una donna privata di ben più dell’identità carnale quanto si rispecchia nell’occhio dell’osservatore.

«Signora, scaveremo in cerca del Creatore, lo cercheremo in fondo alle sue ferite, signora. Lo cercheremo e quando lo avremo trovato gli chiederemo di rifare una donna nuova. Di modo che, a partire dall’odio che l’ha ferita, a partire da quel maledetto acido, da queste ferite, lei, signora, trovi la sua grande verità, sulla quale potrà tornare a edificare, questa volta per sempre. Lo sa, signora, qual è il simbolo del v.i.t.r.i.o.l.u.m. nell’alchimia? Si stupirà: Cupido, l’amore ardente che con i suoi dardi rigenera! Ma non è un simbolo capriccioso. Come l’amore, lo scorticamento per ustione ha il suo aspetto razionale: scoprire la bellezza interiore… Lei che ha tempo, giovanotto, vada ad ammirare la statua di San Bartolomeo in Duomo, un santo così trasparente.»

Ponendo l’attenzione sul dettaglio, concentrando lo sguardo e dissezionando in infinitesimali parti la tragedia, l’autore, il protagonista, il figlio, affronta l’evoluzione del dramma: vi è un apparente calma, accompagnata da uno scavo psicologico di una rara luminosità, nel tentativo di comprendere le azioni. Il dolore si dipana in un percorso a ritroso che si fa necessario quanto disastroso. Il tempo della tragedia procede attraverso gesti irrimediabili e necessari: dopo lo sfregio ai danni di Eligia, Arón decide di togliersi la vita. Si innesca una reazione a catena che travolgerà tutti, non da ultimo l’autore stesso. Le spire del risentimento finiscono per avvilupparsi intorno alla famiglia tutta, stringendo il cerchio intorno ai superstiti:  la miccia è liquida, ma non corta; la deflagrazione non lascia scampo alcuno, manifestando i suoi effetti sul lungo corso.
Il baratro su cui affacciano tutti è l’epilogo, ma anche la liberazione: la finestra aperta lascia alle spalle il dolore, il rancore, regola i conti col passato: chiude un capitolo. Baron Biza smette di oscillare tra l’oblio, la rimozione totale della figura del padre e la comprensione, la ricerca di una extrema ratio dietro l’evolversi degli eventi. Dopo la morte della madre, disseppellendo le carte del padre, emergono risposte, risposte come dardi infuocati, che illuminano e bruciano.

L’indignazione mi fa sussultare. Rileggo alcuni passi: è andato molto più in là degli ubriaconi, ha costruito uno spazio in cui è impossibile riconoscere un limite. Ha aperto un deserto di cui non si vedono i confini, un genere di male che non ha nemmeno più bisogno di esercitarsi nell’aggressione, perché si è chiuso in un universo in cui non c’è posto per l’umano; un mondo narcisista, che crea se stesso, che tronca ogni rapporto, ogni prospettiva, ogni riunificazione. Ha scelto di guardare verso il vuoto, il grado zero della sterilità, di produrre dove non si produce né si ammette alcun difetto, perché riconoscere un difetto significa ammettere che possa esistere la perfezione: il grado zero della sterilità. Per inoltrarsi volontariamente nel deserto, Arón ha rinnegato il suo amore per Eligia e il suo percorso politico degli anni Trenta.

Immergersi nel romanzo di Baron Biza significa seguire, passo dopo passo, uno sciame di trasformazioni; significa inoltrarsi nel corso lento e inesorabile di una logica perversa, nella consequenzialità della follia. Nel tentativo di dissotterrare le implicazioni dell’agire, sono i dettagli a emergere e a porre lo spettatore ad una distanza tale da fargli dimenticare il quadro d’insieme. Solo ponendo il focus sul microscopico, l’autore, e con lui il lettore, può prendere momentaneamente congedo dalla ruvida concretezza dell’orrore; al di fuori del dettaglio, e delle porte d’ospedale, si apre un mondo di meschinità e autodistruzione.
E a quel punto anche un ritratto di Arcimboldi condensa i termini di una scrittura che fa della morfologia del volto, quale paradigma dell’identità individuale, un tratto essenziale per un processo tassonomico dell’esplorazione del caos interiore.

Mi sorprese che quel volto immaginato quattrocento anni prima conservasse il potere di rivelare due stati di segno morale contrario e sovrapposto. Riconobbi nel secondo sguardo che emanava dal ritratto – quello freddo, spietato – una materia così attenta al male da aver perso coscienza di sé ed esalare quella stessa qualità maligna di non poter essere riconosciuta che io fino ad allora avevo attribuito ai sassi, quella perversione al di là delle possibilità umane, strumento della transragione, che all’improvviso trovavo incarnata da tempi remoti, come se i sassi costituissero, dietro la carne implume, un terribile riferimento nascosto al deserto.

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Martina Mantovan


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