Non attendere nessun allarme
anche se sarà notte fonda
e dalle vetrate vedrai la città che brucia
fra i roghi e i fumi delle discariche.
Qui la campagna sotto casa
sanguina dai solchi
quando l’alba sbuca come un ferita
fra i cartelloni pubblicitari.
Qui le auto si riversano sui cavalcavia
come formiche dalle tane
allagate dalla pioggia.
Ma tu resta, stringiti a questa maniglia
chiudi questi palmi finché puoi.
Marco Aragno è un poeta atipico perché sa attendere! Spezza, certo, l’attesa con qualche rara e mirata anticipazione, ma comunque sa attendere. Sperimenta, semmai, nuove strade per la sua scrittura, come è stato col romanzo Absolute (2015). Sì! Marco Aragno sa attendere, ed è per questo che quando è uscito Terra di mezzo (Raffaelli Editore) io ho gioito e non poco. Perché non è un segreto che il poeta Aragno a me piaccia; l’avevo già detto al suo esordio con Zugunruhe (2010): Aragno traccia un ponte tra la sua generazione e tutta la tradizione che lo precede per la quale poesia è sia espressione artistica sia dialogo col presente, nonché riflessione critica sul presente. La maturità raggiunta con Terra di mezzo mostra la poesia di Aragno consapevole di un equilibrio raggiunto tra la fluidità del verso e l’appropriazione della lingua poetica, capace di innestare nel dettato voci di una certa colloquialità, familiarità, provenienti dal parlato, senza mai però tradursi in atteggiamento mimetico e ancor meno parodistico – aspetti, questi, fondanti della lingua di Absolute.
Ciò di cui si fa testimone la poesia di Aragno è una mutazione che dal territorio passa, per mutuazione, agli individui spaesati attraverso la poesia: quello stato di spasmodica attesa che stava alla radice di Zugunruhe, sin dalla scelta del titolo della raccolta, legato allora anche alla giovane età del poeta, si è trasformato ora in interrogativi forse destinati a non avere una risposta definitiva; ciò malgrado il poeta non rinuncia a porre domande, come pure non rinuncia a dare risposte. Eppure quell’inquietudine primigenia soggiace ancora nella vibratile forza che anima le immagini di queste poesie, che paiono ingannare per la loro compostezza, mentre invece denunciano uno straniamento generazionale che fatica a riconoscersi nei segni malati del suo tempo, nella contemporaneità malata, senza però smettere di proiettarsi verso il futuro (aspetto questo comune a un altro poeta partenopeo, Gianni Montieri): il passato è il «corpo affiorato» che si osserva «il paesaggio/ avvolto in un giorno di pioggia» della prima poesia; ma ancor di più, e meglio, il “passato” di Aragno «sono le facce/ scavate nelle pietra,/ le impronte di umidità che sostano/ sulle piastrelle della stanza./ Sono i mutamenti di luce, i passaggi/ di nuvole sul parabrezza», in un continuo ma non caotico rincorrersi di immagini in cui la presenza umana è data sia dalla percezione della natura, sia dagli oggetti del progresso-regresso (come gli «scheletri di grattacieli a mezz’aria/ e qualche gru sospesa nel vuoto –/ là, dove un tempo avresti immaginato/ un bosco, uno stormo in volo»).
Su tutto irrompe la realtà, recita il verso primo di una poesia della prima sezione; una realtà fatta di «giorni deboli». E si potrebbe procedere spediti per questa strada, commentando le poesie con la materia di cui son fatte, con il nitore di questi versi, scandalosi per quanto son chiari; ma sono compostezza e nitore apparente, come informa «l’albero ritorto/ che affiora dalla schiuma del lago» in Esondazione, poesia che apre la sezione eponima della raccolta, Terra di mezzo, e dove assistiamo alla mutazione di un uomo che «spoglia la vista/ si abitua alla nuova luce che colpisce/ la retina e imprime/ il fondo limaccioso nella mente». Ed eccolo il nuovo imprinting sparato in chiusura di una poesia che presenta una sorta di nuova Waste Land; ma quali sono le macerie da puntellare, ora?
Ci sarebbe bastata una radice
offerta al nostro passaggio
da un muro che costeggia la casa,
una radice emersa dal tufo
dal buio della pietra
per legare il presente col passato.
L’avresti piantata in giardino
sotto un mattone sberciato
perché l’edificio crescesse in altezza
e reggesse all’urto dei venti
che lo scuotevano in profondità.
Invece scegliesti il mare
per prendere il largo, sfidare
la schiuma degli oceani,
lottare contro la forza delle correnti
che spezzano il fianco delle navi
e stravolgono le rotte
lasciando che la casa alle tue spalle
scivolasse fuori dall’orizzonte
si perdesse sui fondali
tra i relitti che splendono inutilmente
negli occhi muti dei pesci.
Quale mito si annida in questi versi? Verrebbe da dire che la risposta è data dalla poesia Muro, nella figura del “bimbo” che «puntella il muro da ogni lato/ lo sogna ogni notte, lo fa suo/ lo trasforma in estensione della vita», se non fosse che questo fanciullo è a sua volta parte del mito della “Terra di mezzo”. È, perciò, nel segno del poi della sezione che segue (Dopo di noi) che emerge chiaro il discorso che lega ogni parte di questo libro: l’elemento salvifico non appartiene all’uomo, a questo uomo almeno, perché né gesti né memoria «potranno salvare questi luoghi/ giaciglio di fiori avvizziti/ che una manciata di formiche vivifica»; e non appartiene nemmeno al divino, declassato a sistema di «nubi senza stupore». Il disincanto è dato reale, concreto, generazionale; si oppone a esso qualche rara certezza, e fra queste la certezza che la poesia possa farsi testimone e monito per il «riscatto/ dei giorni vissuti senza presagi» (da Viaggi binari, il poemetto che chiude la raccolta). Cerca di opporsi a esso il moto stesso del pensiero, della fantasia, dell’immaginazione che è il medesimo dell’attimo creante in poesia: il superamento del dolore – perché è anche di questo che stiamo parlando ora, e di cui parla Terra di mezzo – per la propria terra amata, e proprio perché amata non accettata per com’è ora, bensì evocata nel suo passato e immaginata con gli occhi di un’innocenza fanciullesca che comunque si sa irrimediabilmente perduta:
Si potevano immaginare mondi
dai rottami e dalle carcasse
accatastate agli angoli delle strade.
Come inventare sciami di farfalle
da nugoli di mosche
o banchi di nuvole in transito
dalle folate di polvere, tra le baracche.
Erano i nuovi nati
che sapevano mettere i colori
nelle cose distrutte
loro che sognavano ancora la vita
nella morte che cresceva intorno.
© Fabio Michieli su Twitter @michielabio
[alcuni componimenti di Terra di mezzo sono stati anticipati sia in rivista sia in questo stesso blog: 19/08/2013 e 4/11/2013]
Una replica a “La “Terra di Mezzo” di Marco Aragno”
L’ha ribloggato su asSaggi critici.
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