Suggestioni del cadere
(Denise Celentano)

Illustrazione per “Il paradiso perduto” di Milton
Una passeggiata a briglie sciolte nella trama di suggestioni evocate dal cadere.
Il corpo. Cadere è perdere l’equilibrio, a seguito di un impatto con un ostacolo imprevisto; cadere è l’interruzione, più o meno brusca, di un movimento. È una cesura fra un prima e un dopo, è un incidente – come qualcosa che potenzialmente incide, può lasciare un segno. Il corpo può infatti conservare memoria della caduta, come cicatrice a indelebile testimonianza di quel venir meno del controllo che è l’atto del cadere: a ricordarti che basta un non visto qualunque per togliere ai tuoi passi il loro ritmo regolare. Tutti presi dalla res cogitans, quando inciampiamo siamo costretti, più o meno violentemente, a ravvederci della nostra elementare sussistenza come res extensa. Cadere ci riconduce cioè all’irriducibile corporeità dell’esistenza: nell’esperienza del cadere ci si vive come corpo. Perciò, nel cadere sperimentiamo un’imprevista parità ontologica col mondo delle cose. Ci riscopriamo materia nella materia, oggetto fra gli oggetti, dotati di confini e quindi intrinsecamente suscettibili di scontro. Cadere è l’inciampo imprevisto nella materia di cui il corpo stesso in caduta è parte: è fare inavvertitamente esperienza della forza di gravità, la quale silenziosamente governa l’universo senza che questo se ne accorga. Di qui la vecchia sinonimia fra corpi e gravi. Come a dire che i corpi sono tali proprio in quanto dotati della caratteristica fondamentale di pesare: in quanto intrinsecamente soggetti a gravità e come tali suscettibili di caduta. Ma in senso figurato i corpi sono gravi anche in quanto intollerabili – è perché siamo corpo che siamo caduchi, soggetti alla decadenza e alla morte; e quello del corpo come prigione dell’anima costituì a suo tempo un topos.
Da un lato, l’impatto improvviso e non cercato contro qualcosa che investe il corpo. Dall’altro, l’irruzione del caso nella catena causale lineare dell’azione cosciente. Non deve allora passare inosservato che caduta traduca il latino casus. Un’affinità in effetti profonda: dal momento che, a guardar bene, cadere non è che un modo di fare esperienza del caso.
Sono cose che non sfuggono ai poeti. La sensibilità di Valerio Magrelli nel captare il significato dell’imprevisto, della rottura, del non lineare, delle zigzagature dell’esistenza, di cui il cadere è figura emblematica, emerge fra l’altro in Amo i gesti imprecisi [da Poesie (1980-1982), Einaudi, Torino 1996]:
Amo i gesti imprecisi,
uno che inciampa, l’altro
che fa urtare il bicchiere,
quello che non ricorda,
chi è distratto, la sentinella
che non sa arrestare il battito
breve delle palpebre,
mi stanno a cuore
perché vedo in loro il tremore,
il tintinnio familiare
del meccanismo rotto.
L’oggetto intatto tace, non ha voce
ma solo movimento. Qui invece
ha ceduto il congegno,
il gioco delle parti,
un pezzo si separa,
si annuncia.
Dentro qualcosa balla.
L’intera esistenza che cos’è se non una grande aritmia, una gigantesca discontinuità, il farsi e disfarsi perenne di nessi, l’incastrarsi irregolare di aggregati. Un ballare: come tremore inconsulto, come danza e movimento. Tutto questo è «familiare», è nella natura stessa delle cose. La poesia di Magrelli è un inno ai gap dell’esistenza, ai territori del venir meno del controllo. Questo ci conduce direttamente all’etimologia, per così dire esistenziale, del cadere.
Etimologia esistenziale. A riprova del legame col movimento, in latino caduta si traduce anche con lapsus, da labi, scivolare. (Si pensi anche alla parola affine collasso – collapsus –, concetto associato a uno shock, a riprova del carattere di incidente del cadere). Con lapsus s’intende l’errore non voluto, l’inciampo verbale: il detto che non andava detto. C’è un piccolo venir meno della volontà nel lapsus, che significativamente può essere reso anche come scivolone. Il termine è tipicamente associato a Freud, che nel lapsus ha rinvenuto un anello di congiunzione tra il mondo conscio e quello inconscio, tra il visibile e l’invisibile dell’io: fra il giorno e la notte delle persone. Per Freud nessun lapsus è irrelato o privo di ragioni. Questo caso che è il cadere come lapsus, cioè, è tutt’altro che casuale. Una precisa causalità vi presiede: il lapsus esprime un atto mancato, un’istanza inconscia repressa che trova soddisfazione espressiva nell’errore. È l’inconscio che fa irruzione nel conscio, strappandogli per un attimo il controllo. Si apre così una fessura attraverso cui guadagnare accesso verso quel mondo sommerso che sarebbe l’inconscio.
A cadere non è soltanto l’individuo umano: cade anche quello che gli sta intorno, nella misura in cui non è scelto ma subìto. Si pensi alla parola accadere: quello che succede, in qualche modo, è qualcosa che cade; almeno, se non si è agito in prima persona questo accadere. Ha le caratteristiche dell’inciampo. Lo stesso vale per quel bellissimo, ambiguo verbo, che è occorrere, usato in inglese (to occur) nell’accezione proprio di accadere, avvenire, come anche nell’italiano più formale (“un fatto occorso di recente” – benché sia decisamente più utilizzato nel senso di “avere bisogno di”). È interessante notare che il verbo accadere è spesso usato nella forma passiva: “cosa ti è accaduto?”. C’è una sfumatura che richiama il subire un avvenimento, di cui si è spettatori e non attori. O, meglio, diciamo così: inciampatori.
Associazioni. Com’è noto, cadere è un verbo usato per descrivere l’innamoramento nelle altre lingue. Tomber en amour è “innamorarsi” in francese. Il termine entra in gioco anche per designare il seduttore seriale, il tombeur de femmes, letteralmente “colui che fa cadere le donne”. Quando ci si innamora si inciampa, ci si schianta contro qualcosa che non si era previsto. Si perde l’equilibrio; di nuovo: l’interruzione di un ordine, la perdita del controllo. Il linguaggio testimonia in effetti che il cadere somiglia molto all’amore: non solo per il carattere di imprevisto, ma anche perché può far male.
Come resistere adesso al richiamo della parola tombe, tomba, evocata dal tomber francese. Non solo cadere richiama la caducità – termine quanto mai rivelatore – dell’esistenza, in quanto il corpo è di per se stesso esposto al pericolo cioè al dolore e alla morte, ma l’espressione evoca l’irresistibile, atavico nesso eros/thanatos. Amore e morte, piacere e dolore, sembrano fusi insieme nell’espressione tomber en amour; almeno quanto l’espressione inglese, falling in love. Anche in inglese innamorarsi è, di nuovo, un cadere nell’amore. Questo non può non rivelarci un aspetto fondamentale dell’amore: anch’esso, come il cadere, è un affascinante (o terribile) venir meno del controllo; ha carattere di pericolo. E infatti cadere è in alcuni casi finanche sinonimo del morire: cadere in guerra; cadere sul campo di battaglia.
Il lapsus era chiamato dal padre della psicoanalisi Fehlleistung (atto mancato). Il Fehl tedesco (difetto, vizio), come anche il falling inglese, si associa al fallere latino, verbo che significa ingannare. In italiano, si pensi a termini quali fallacia, fallimento, fallo, falso, e simili. Siamo cioè nello sconfinato campo semantico dell’inganno. La letteratura dell’amore come inganno e illusione è sterminata. Si cade nell’amore, allora, non solo perché non lo si era previsto, non solo perché ci si può far male, ma anche perché innamorandosi si finisce un po’ per ingannarsi: alimentata dal desiderio, l’immaginazione attribuisce all’oggetto d’amore bellezze esponenziali, che ai non innamorati non è dato vedere – secondo quella che Stendhal chiamava cristallizzazione.
Nascere come cadere. Tralasciando ora la questione dei lapsi – i “caduti”, coloro che rinnegarono la loro fede cristiana per sottrarsi alle persecuzioni, su cui ha molto riflettuto Agostino d’Ippona –, è singolare che l’idea di caduta sia storicamente associata a quella della creazione e del venire al mondo. Quello della caduta nel corpo è un topos antichissimo; si pensi fra l’altro a Platone o alla teologia cristiana, secondo cui il male nasce proprio da una caduta: quella di Lucifero dal Cielo. Fiumi d’inchiostro sono stati versati, nella storia del pensiero occidentale, per razionalizzare l’esperienza della caduta, strettamente connessa alla nascita, al peccato originale, al farsi corpo dell’umanità.
Nascere nella tradizione è infatti cadere da un altro mondo, quello originario, divino, perfetto, immateriale e incorruttibile. Come esperienza del farsi corpo, il nascere-cadere equivale allora a esporsi alla intrinseca limitatezza e fallibilità della materia, finendo intrappolati in un mondo imperfetto, corruttibile, dominato dall’errore. Come nell’inciampo, come nell’innamoramento, così nel venire al mondo inteso come caduta è il corpo a segnare lo scarto. Secondo i neoplatonici, la redenzione da questo stato di caduta nel corpo, cioè nella dimensione del corruttibile, è possibile solo con il ritorno a dio. Un risalire (cadere è di contro uno scendere) che coincide con la purificazione, intesa come liberazione dal corpo e dalla “molteplicità degli accidenti”, verso l’Uno-dio.
Senonché il “salire”, l’andare verso l’alto o in avanti (l’ascesa verso dio), la rappresentazione di “ciò che è alto” come qualcosa dotato di valore, si contrappone alla discesa, alla caduta appunto, verso il basso, cioè verso ciò che è inferiore, mancante o deficitario in relazione a quel che giace “sopra”. Nell’immaginario occidentale, se venire al mondo è cadere e cadere è uno “scendere”, allora nascere è regredire, è degradarsi da uno stato di perfezione a uno stato di corruzione. Regressione e corpo sono storicamente associati in questo universo semantico del cadere, nell’ambito di una cultura che ha visto nella dimensione corporea la sede del peccato e dell’errore. Ancora oggi, l’espressione viene utilizzata per designare in modo figurato una regressione: è caduto proprio in basso; si pensi anche a La caduta, titolo emblematico del romanzo di Albert Camus.
Se nascere è cadere, il cadere finisce allora per configurarsi come cifra propria della vita stessa, in quanto generata da una caduta e essa stessa soggetta alla decadenza e alla morte. Il nesso cadere/corpo e cadere/nascita è dunque fortissimo, semanticamente originario. Non a caso tipica del neoplatonismo è anche l’idea di una doppia creazione: una, per così dire, intellettuale, e una sensibile, materiale e corporea. Origène di Alessandria sostiene che la “prima creazione” abbia riguardato soltanto le sostanze intelligenti, quelle dotate di libertà, e che tale libertà sarebbe stata la causa della loro de-cadenza dallo stato perfettamente intelligibile: l’atto stesso di decadere nel corpo ha determinato quindi la nascita del mondo sensibile, la “seconda creazione”.
Cadere come subire. Storicamente, dunque, il cadere ha un’accezione negativa. Si è designata la nascita stessa come una caduta a sottolineare l’impossibilità di sceglierla, di autodeterminarla: è sempre altri che ti fa nascere; nascere è un evento passivo, che si subisce. (Si pensi a quello che per alcuni versi può essere considerato il correlato secolarizzato del concetto – quello heideggeriano di Geworfenheit, gettatezza). Ma un esempio alternativo è costituito da Hannah Arendt, con la sua “filosofia della nascita” intesa come azione e libertà. Esiste una seconda nascita – la “seconda nascita”, culturale, psicologica ed esistenziale, in quanto diversa dalla “prima nascita”, naturale, è un autentico topos letterario – scaturita dal farsi politico del nostro stare al mondo. «Gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per dare inizio a qualcosa di nuovo. Con la creazione dell’uomo il principio del dare inizio è entrato nel mondo – ciò che ovviamente è solo un altro modo di dire che con la creazione dell’uomo il principio della libertà ha fatto la sua comparsa sulla terra» [H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 1991, p. 129]. In Arendt nascere è un’occasione di libertà, non un evento che si subisce tout court: il cadere, con la sua accezione di passività subita, non può più costituire metafora del nascere, se il principio del dare inizio coincide con la possibilità stessa della libertà.
Le costellazioni semantiche del cadere ci hanno condotto al problema del corpo come caducità, come suscettibilità alla gravità, e poi all’inciampo verbale, quindi all’amore e alla morte e all’inganno; infine al venire al mondo. Si tratta di una parola che contiene un piccolo universo: le sue trame di significato rinviano ad alcune credenze cruciali di una civiltà. Come metafora universale della perdita di dominio sulle cose e su di sé, il cadere ha dunque a che fare con una caratteristica fondamentale della vita e molto umana.
© Denise Celentano
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Denise Celentano (Reggio Calabria, 1987) si è laureata in Filosofia all’Università La Sapienza con una tesi sul concetto di classe nella teoria marxista di Erik Olin Wright. È autrice del documentario Sud altrove (2012, realizzato con LiberaReggio LAB), ha pubblicato saggi nelle collettanee Sud altrove (Asterisk 2013) e Contro versa (SabbiaRossa 2013); collabora con diverse riviste.