Le cronache della Leda #23: Ritorno a casa
Ricordo solo di essermi svegliata seduta su una vecchia poltrona di velluto marrone. Una giovane donna tentava di porgermi un bicchiere d’acqua, mi diceva di avermi trovata priva di sensi davanti all’ingresso dell’associazione. A quel punto mi è tornato tutto in mente: stavo passeggiando per Brooklyn, nel mio ultimo pomeriggio americano, sarei partita per l’Italia il giorno dopo. La mia attenzione era stata attratta da una scritta su una piccola targa metallica Gruppo mamme aiuto, prendete per buona la traduzione di una vecchia professoressa in pensione. Leggendo la targa pensavo alla distanza dall’Italia, a quanto poco avessi pensato alla mia casa durante le settimane trascorse qui, pur avvertendo la mancanza delle mie amiche che, per fortuna, sono diventate tutte bravissime con Skype. Credo di aver pensato a quanto mi sarebbero mancati mio figlio e mio nipote, ed è a quel punto che devo essere svenuta. La donna che mi ha offerto da bere mi ha chiesto come mi sentissi e mi ha spiegato d’avermi trovata sui gradini davanti all’ingresso dell’associazione e di avermi portata dentro con l’aiuto di Claire e Helen, me le ha indicate e loro mi hanno fatto un gesto di saluto, dal fondo della sala. Lei mi ha detto di chiamarsi Suzanne, le ho sorriso: «Come la canzone di Cohen» le ho detto. Mi ha spiegato che i suoi genitori l’hanno chiamata così proprio per la canzone. Stavo meglio, ma ho accettato l’offerta di rimanere lì seduta per un po’ a riposare. Hanno cominciato la loro riunione, c’era un piccolo palco, vi è salita una certa Marion (in automatico ho pensato a Marion Ross, l’attrice di Happy Days), una bionda sui sessanta, che ha cominciato a spiegare d’aver fatto dei passi avanti nella gestione organizzativa dei figli della figlia. Mi son detta che forse nel gruppo avrebbe dovuto iscriversi la figlia, ma non sono una che si metta a giudicare gli altri, ho solo scosso un po’ la testa come avrebbe fatto la Luisa. Ho ascoltato Marion e ho capito che sua figlia aveva dei grossi problemi, faceva un po’ di fatica a parlare ma le altre donne la incitavano. Qualcuna ha preso il microfono per dare qualche consiglio pratico. Suzanne si è voltata un paio di volte a controllare se ci fossi ancora, e mi ha fatto dei larghi sorrisi. Quando Marion è scesa dal palco l’ho applaudita insieme alle altre. Prima che cominciasse a parlare la prossima, ho ringraziato Suzanne e sono andata via.
Il malore e la solidarietà (ma anche la curiosità) femminile non avrebbero modificato il programma della mia ultima serata a New York. Il pomeriggio era caldo e soleggiato, ho alzato la mano, come nei miei film preferiti, e ho chiamato un taxi. Da attrice consumata, una Dunaway, una Streep, una Keaton, ho detto soltanto: «Broadway, please». La mia ultima sera americana prevedeva la visione di Chicago, ho comprato il biglietto due mesi fa, poi una passeggiata notturna per Manhattan, così per salutarla. Ho come l’impressione che potrei incrociare Woody Allen da un momento all’altro, poi un altro taxi per l’hotel, la telefonata con mio figlio per concordare l’orario in cui passerà a prendermi per andare in aeroporto e, infine, una bella dormita.
Lo spettacolo è stato splendido, ha rafforzato la mia convinzione che i musical sono belli se fatti qui, dagli americani. Quelli fatti in Italia a me sembrano stupidaggini, poi magari sono fissazioni da vecchia signora.
I saluti agli aeroporti non sono mai facili, figuriamoci quelli con un figlio e un nipote che non vedrai fino a Natale, ma sono comunque più sopportabili di quelli che fai in stazione, quando vedi il treno partire. Dopo, al gate, mentre aspettavo che chiamassero il mio volo, ho telefonato alla Luisa e ho detto: «Vi aspetto martedì pomeriggio alle cinque.» Ha soffocato una risata e ha risposto: «Non dirmi che da quelle parti ti hanno insegnato a fare le torte. Ci vediamo martedì.» E ha riagganciato.
Leda
Una replica a “Le cronache della Leda #23: Ritorno a casa”
[…] Ricordo solo di essermi svegliata seduta su una vecchia poltrona di velluto marrone. Una giovane donna tentava di porgermi un bicchiere d’acqua, mi diceva di avermi trovata priva di sensi davanti all’ingresso dell’associazione. A quel punto mi è tornato tutto in mente: stavo passeggiando per Brooklyn, nel mio ultimo pomeriggio americano, sarei partita per l’Italia il giorno dopo. La mia attenzione era stata attratta da una scritta su una piccola targa metallica Gruppo mamme aiuto, prendete per buona la traduzione di una vecchia professoressa in pensione. Leggendo la targa pensavo alla distanza dall’Italia, a quanto poco avessi pensato alla mia casa durante le settimane trascorse qui, pur avvertendo la mancanza delle mie amiche che, per fortuna, sono diventate tutte bravissime con Skype. [continua a leggere su Poetarum Silva] […]
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