Giovanni Raboni affrontava la realtà in modo indiretto, eppure non mancava di centrare il segno malgrado filtrasse ogni cosa con uno schermo. Del resto è il poeta italiano che più di tutti ha fatta sua la lezione straniante di Ezra Pound; e ha forzato a tal punto la lezione poundiana da fare dell’ellissi la propria figura di riferimento da A tanto caro sangue in poi, dove tra tagli e rimaneggiamenti l’intera sua poesia ha finito per acquistare nuova linfa.
Se guardiamo alla sola produzione in versi, da Gesta Romanorum a Ultimi versi, noteremo subito tutta quella serie di costanti sia tematiche sia stilistiche che rendono davvero ragione di una coerenza del poeta Raboni portata avanti fino alla fine. Non stupisce quindi ora, come non stupì allora, la comparsa di forme chiuse (soprattutto del sonetto) perché è in realtà la naturale conseguenza di una ricerca iniziata subito; una ricerca del respiro poetico che si fondava sull’alternanza di versi canonici della lirica italiana (endecasillabi e settenari in prevalenza, ma anche quinari e trisillabi), variamente (s)composti, ma facilmente riconoscibili, con versi sia ipermetri capaci di superare le trenta sillabe, sia ipometri (rari), il tutto attuato per avvicinare la lingua della poesia a quella della prosa e più ancora a quella reale.
Sì! perché la realtà si poteva ritrarre anche grazie alla forzatura del canone linguistico e stilistico, e non solo attraverso l’inserimento di voci gergali, o tecnicismi desunti dai vari ambiti che la società offriva a chi era capace di coglierli. Anche questa era militanza; anzi, come è stato fatto notare più volte era l’altro che entrava nel questo (si leggano a tal proposito l’introduzione al ‘Meridiano’ di Rodolfo Zucco, e il bel libro di Fabio Magro).[1]
Si compiva così, e paradossalmente in contemporanea sul finire degli anni Sessanta e l’avvio del decennio successivo, quell’affresco di una società in mutamento ma frenata da una classe politico-dirigenziale incapace di intercettare in modo corretto i mutamenti, che poneva Raboni al fianco tanto (e quindi non più semplicemente sulla scia) di Vittorio Sereni (soprattutto Gli strumenti umani, senza tralasciare comunque Diario d’Algeria) e Mario Luzi (quello di Nel magma e Su fondamenti invisibili), per nominare due tra i più influenti poeti del secondo Novecento, quanto di Giudici e Cesarano.
Mentre risultava già allora una certa indifferenza verso quelle avanguardie che non seppero poi sopravvivere a sé stesse (ma questa è una mia considerazione personale).
E il discorso si amplierebbe ancor di più se prendessi in esame il critico, il traduttore e il prosatore; solo che non è questo il momento per affrontare un così ampio discorso, né io ne sarei all’altezza. E se sul critico e sul traduttore alcune belle pagine sono comunque state scritte (penso a Mengaldo, penso ancora una volta a Zucco), è sul prosatore che vorrei poter leggere un giorno qualcosa che indichi sia i punti di contatto sia quelli di più spiccata originalità con la produzione in versi (sperando che l’appello venga presto accolto). Perché sono proprio le prose raccolte nel 1980 per Guanda nel volume intitolato La fossa di Cherubino, ma composte almeno un decennio prima, a riempire quello che stava diventando un lungo silenzio in poesia (e mi chiedo quali tratti in comune questa pagina di Raboni possa avere con quella di Sereni, per esempio).
E più guardo al lavoro compiuto, più mi rendo conto di quanto sia pressoché impossibile un discorso unitario, capace di comprendere tutto ciò che Giovanni Raboni è stato. Così provo a compiere un salto e a spostare lo sguardo sull’eredità lasciata, che è tanta ma raccolta per ora in pochi però significativi, secondo me, autori. La ritrovo in alcune movenze di Pusterla (quando il verso si dilata oltre misura); lo ritrovo nel dettato di Guido Mazzoni; lo ritrovo in certi attacchi di Gianni Montieri, che non ha mai taciuto il suo legame con il poeta che ha dato voce a quella Milano che cominciava a smettere di parlare. Ma forse l’eredità più grande sta nella poesia come testimonianza, come appiglio e insieme appello alla memoria per non perdere mai di vista un solo istante l’origine delle cose; appello alla memoria che si fa storia «sempre tentando […] di chiarire, mai cedendo alla lusinga del confondere», come indicò Attilio Bertolucci all’indomani dell’uscita di Cadenza d’inganno.[2]
© Fabio Michieli
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[1] Rodolfo Zucco, Introduzione a: Giovanni Raboni, L’opera poetica, Arnoldo Mondadori Editore, ‘I Meridiani’, Milano, 2006, pp. xxi-lxiv; Fabio Magro, Un luogo della verità umana. La poesia di Giovanni Raboni, Campanotto Editore, Udine, 2008. A Rodolfo Zucco si deve anche la curatela del doppio volume einaudiano che raccoglie Tutte le poesie, uscito proprio in questi giorni.
[2] Attilio Bertolucci, recensione a Cadenza d’inganno, “Il Giorno”, 9 luglio 1975; ora in Giovanni Raboni, Tutte le poesie (1951-1993), Garzanti, Milano, 1997, pp. 314-16 (in part. p. 315).
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