, , , , ,

Elsa Morante: poesia come “Alibi”

elsa gatti 2_thumb[1]Le poesie di Alibi di Elsa Morante furono pubblicate nel 1958 su spinta di Nico Naldini per Longanesi, in una collana di poesia inventata e improvvisata – creata lì per lì – in cui uscirono anche Croce e delizia di Sandro Penna e l’Usignolo della Chiesa cattolica di Pier Paolo Pasolini. Garzanti ripubblica questa raccolta nel 1988, poi nel 1990 nella collana “Gli elefanti”, mentre oggi la si trova in Einaudi (2004, Supercoralli, e 2012 ET Poesia).
Nel ’58, la raccolta fu accolta da Caproni ed altri critici, che ne parlarono con interesse e spinta, e poi fu dimenticata per trent’anni. Nel ’90, l’attenta prefazione è di Cesare Garboli, che dopo i dovuti mea culpa per aver trascurato la poesia della grande autrice in precedenza, si inoltra in un’analisi appassionata, che qui terrà conto di alcuni punti salienti (è la stessa nelle ripubblicazioni Einaudi). Innanzitutto siamo in presenza di versi «che trasudano e respirano stile libero, musica interna, onda e movimento interiore»* con un linguaggio molto poco novecentesco, abbondante di riferimenti alti, dalla tradizione greca dei miti alla nostra poesia italiana dell’Umanesimo (mi viene in mente a tal proposito Angelo Poliziano, per il “subitus calor” qui sotteso), barocca e anche settecentesca, riferimenti che nutrono e si nutrono di una storia letteraria ampia, come sottolinea lo stesso critico Garboli. Ma Alibi è soprattutto una raccolta che fa perno sull’amore, come osserva la critica tutta, tema precipuo dell’opera e della vita dell’autrice stessa; un amore che però non può mai essere corrisposto perché è solo lo specchio di sé stesso: «Ogni amore è un amore perso. Non infelice: perso, invivibile.» Garboli afferma che l’amore espresso da Morante in queste poesie – e che qui si “dice” nei testi che riportiamo – sia proprio quello che l’autrice metteva in campo con accanimento nella vita, sia quello che difendeva sopra ogni cosa, anche sopra la sua poesia. Un amore che è anche appunto, già nel titolo, “pretesto” e motore di scrittura e/o motivo dell’essere “altrove”, letterariamente soprattutto. Morante resta tradizionalmente ancorata in un tempo letterario diverso, dominato da un sentire che “sta fuori”: «Elsa era tutta nell’immaginario. La sua grande passione per la realtà si spiega anche con l’impossibilità, in lei, di trovare una resistenza, un limite alla finzione»*
C’è in Morante questa forza ancestrale dell’amore, che è un’esperienza anche misteriosa e animale, che spinge fuori da un vocabolario censibile nel Novecento poiché si tratta di un “sentimento” (o un modus vivendi?) “altro”, che si presentifica come «raro, elevato, prezioso, “spettacoloso”», estraneo al suo secolo.
Non voglio ridurre qui il mio focus su questo argomento per quanto cruciale, poiché la poesia di Morante è stratificata e complessa*; eppure, sempre Garboli, nel riferirsi a Morante autrice-donna affermava: «Il volto paffutello, gli occhi dolci e un po’ torbidi, esperta di ogni civetteria e fondamentalmente innocente, era condannata a una misura di superiorità che le toglieva la gioia di sentirsi amata, o la costringeva all’impossibilità di esserlo»*. Ci dice però lei stessa nella nota d’introduzione del 1958, che queste poesie sono solo un coro o un’eco delle prose pubblicate; come già nella poesia di Ortese pubblicata qui la scorsa settimana, v’è un altro “abbassamento” non necessario, ma che fa storia nella nostra letteratura da tempi immemorabili.
La mia scelta è andata ad operare su testi non contenuti né in Menzogna e sortilegio né in L’isola di Arturo, per tentare di restituire una lettura che sconfini e sia diversa ma certo non priva di legami con queste opere. Così, secondo Garboli, nella poesia a Minna riecheggia un ritmo d’adagio alla Saba mentre nella poesia Alibi (che uscì nel gennaio 1957 sulla rivista «Tempo Presente») i riferimenti molteplici sono a L’isola, ma anche alla contemporanea relazione con Luchino Visconti, in una ricerca, redenzione, di sé donna-autrice, anima-fanciulla(/o), riflessa in uno specchio come Rimbaud, sempre attenta a “dire” quel «lirico mistero di cui le vicende umane sono il riflesso» (Paolo Milano)*. Se la vita per Ortese era tutto, per Morante è il “riflesso letterario della vita” ad essere tutto: «Tu hai il dono della riflessione fuori di sé, della contemplazione, in altre parole della fantasia creatrice… ma sei infelice, della infelicità del tutto, della tragicità della carne e dell’apparenza breve, brevissima delle cose» le scriveva infatti Goffredo Parise. Inoltre, questo suo “declassarsi” si può intendere come un’operazione simbolica, che ci permette di apprezzare poesie rare e certo, divertenti, come lei stessa afferma, che trovano linfa forse nei Racconti dimenticati pubblicati da Einaudi nel 2002.
Una nota interessante ma subito smentita da Garboli, ci riporta all’inizio di questa breve introduzione, ossia alla parentela non solo geografico-letteraria dei tre poeti della collana Longanesi bensì alla loro “appartenenza letteraria di sangue”; Penna, Pasolini, Morante, sono più di una triade d’autori accorpati a caso, perché li si aveva sottomano in quell’istante, dal momento che – si sa – la loro frequentazione e interazione in quegli anni era vivissima (pubblico a piè pagina alcuni documenti significativi, per una ricognizione). I tre erano molto amici, e dunque ancora una volta l’amore, «malattia mortale», si rende chiave d’accesso ai testi. Quella di questi versi pare dunque una sfida aperta, tenace, come l’amore ostinato per se stessi ma in maggior misura per gli altri.

© Alessandra Trevisan

 

Minna la siamese

Ho una bestiola, una gatta: il suo nome è Minna.

Ciò ch’io le metto nel piatto, essa mangia,
e ciò che lemetto nella scodella, beve.

Sulle ginocchia mi viene, mi guarda, e poi dorme,
tale che mi dimentico d’averla. Ma se poi,
memore, a nome la chiamo, nel sonno un orecchio
le trema: ombrato dal suo nome è il suo sonno.

Se penso a quanto di secoli e cose noi due livide,
spaùro. Per me spaùro: ch’essa di ciò nulla sa.
Ma se la vedo con un filo scherzare, se miro
l’iridi sue celesti, l’allegria mi riprende.

I giorni di festa, che gli uomini tutti fan festa,
di lei pietà mi viene, che non distingue i giorni.
Perché celebri anch’essa, a pranzo le do un pesciolino;
né la causa essa intende: pur beata lo mangia.

Il cielo, per armarla, unghie le ha dato, e denti:
ma lei, tanto è gentile, sol per gioco li adopra.
Pietà mi viene al pensiero che, se pur la uccidessi,
processo io non ne avrei, né inferno, né prigione.

Tanto mi bacia, a volte, che d’esserle cara io m’illudo,
ma so che un’altra padrona, o me, per lei fa uguale.
Mi segue, sì da illudermi che tutto io sia per lei,
ma so che la mia morte non potrebbe sfiorarla…

(1941)

Amuleto

Quando tu passi, e mi chiami,
assente son io.
Per lunghe ore ti aspetto,
e tu, distratto, voli altrove.
Ma tanto, il mezzano serafico
del nostro amore,
il sultano dello zenit
che muove sul quadrante le sfere
con le dita infingarde e sante,
ha già segnato l’istante
del nostro convegno.
Molli si volgono i miei giorni
a quella imperiosa stagione.
Candida e glaciale essa risplende
alta salendo, come fuoco.
Ah, nostra incantevole stanza!
Che importa a me, infido spirito,
dei tuoi diversi pensieri?
Il presagio inchina già la fronte
all’annuncio. Sorte e amore
ti congiungono a me.

(1945)

 

Lettera

Tutto quello che t’appartiene, o che da te proviene,
è ricco d’una grazia favolosa:
perfino i tuoi amanti, perfino le mie lagrime.
L’invidia mia riveste d’incanti straordinari
i miei rivali: essi vanno per vie negate ai mortali,
hanno cuore sapiente, cortesia d’angeli.
E le lagrime che mi fai piangere sono il mio bel diadema,
se l’amara mia stagione s’adorna del tuo sorriso.

Stupisco se ripenso che avevo tanti desideri
e tanti voti da non sapere quale scegliere.
Ormai, se cade una stella a mezzo agosto,
se nel tramonto marino balena il raggio verde,
se a cena ho una primizia nella stagione nuova,
o m’inchino alla santa campana dell’Elevazione,
non ho che un voto solo: il tuo nome, il tuo nome,
o parola che m’apri la porta del paradiso.

Nel mio cuore vanesio, da che vi regni tu,
le antiche leggi del mondo son tutte rovesciate:
l’orgoglio si compiace d’umiliarsi a te,
la vanità si nasconde davanti alla tua gloria,
la voglia si tramuta in timido pudore,
la mia sconfitta esulta della tua vittoria,
la ricchezza è beata di farsi, per te, povera,
e peccato e perdono, ansia e riposo,
sbocciano in un fiore unico, una grande rosa doppia.

Ma la frase celeste, che la mia mente ascolta,
io ridirti non so, non c’è nota o parola.
Ti dirò: tu sei tutto il mio bene, ad ogni ora
questa grazia di amarti m’è dolce compagnia.
Potesse il mio affetto consolarti come mi consola,
o tu che sei la sola confidenza mia!

(1946)

 

Alibi

Solo chi ama conosce. Povero chi non ama!
Come a sguardi inconsacrati le ostie sante,
comuni e spoglie sono per lui le mille vite.
Solo a chi ama il Diverso accende i suoi splendori
e gli si apre la casa dei due misteri:
il mistero doloroso e il mistero gaudioso.

.         Io t’amo. Beato l’istante
.         che mi sono innamorata di te.

Qual è il tuo nome? Simile al firmamento
esso muta con l’ora. Sei tu Giulietta? o sei Teodora?
ti chiami Artù? o Niso ti chiami? Il nome
a te serve solo per giocare, come una bautta.
Vorrei chiamarti: Fedele; ma non ti somiglia.

La tua grazia tramuta
in un vanto lo scandalo che ti cinge.
Tu sei l’ape e sei la rosa.
Tu sei la sorte che fa i colori alle ali
e i riccioli ai capelli.
La tua riverenza è graziosa come l’arcobaleno.

Sono i tuoi giorni un prato lucente
dove t’incontri con gli angeli fraterni:
il santo, adulto Chirone,
l’innocente Sileno, e i fanciulli dai piedi di capra,
e le fanciulle-delfino dalle fredde armature.
La sera, alla tua povera cameretta ritorni
e miri il tuo destino tramato di figure,
l’oscuro compagno dormiente
dal corpo tatuato.

Tu eri il paggio favorito alla corte d’Oriente,
tu eri l’astro gemello figlio di Leda,
eri il più bel marinaio sulla nave fenicia,
eri Alessandro il glorioso nella sua tenda regale.
Tu eri l’incarcerato a cui si fan servi gli sbirri.
Eri il compagno prode, la grazia del campo,
su cui piange come una madre
il nemico che gli chiude gli occhi.
Tu eri la dogaressa che scioglie al sole i capelli
purpurei, sull’alto terrazzo, fra duomi e stendardi.
Eri la ballerina del lago dei cigni,
eri Briseide, la schiava dal volto di rose.
Tu eri la santa che cantava, nascosta nel coro,
con una dolce voce di contralto.
Eri la principessa cinese dal piede infantile:
il Figlio del Cielo la vide, e s’innamorò.

Come un diamante è il tuo palazzo
che in ogni stanza ha un tesoro
e tutte le finestre accese.
La tua dimora è un’arnia fatata:
narcisi lontani ti mandano i loro mieli.
Per le tue feste, da lontani evi
giungono luci, come al firmamento.
Ma tu in esilio vai, solo e scontento.
.               Il mio ragazzo non ha casa
.               né paese.

La bella trama, adorata dal mio cuore,
a te è una gabbia amara.
E in tua salvezza non verrà mai la sposa
regina del labirinto.
Per il sapore strano del bene e del male
la tua bocca è troppo scontrosa.
Tu sei la fiaba estrema. O fiore di giacinto
cento corimbi d’un unico solitario fiore!

La folla aureovestita del tuo bel gioco di specchi
a te è deserto e impostura.
Ma dove vai? che mai cerchi? invano, gatta-fanciulla,
il passaggio d’Edipo sul tuo cammino aspetti.
O favolosa domanda, al tuo delirio
non v’è risposta umana.
Riposa un poco vicino a chi t’ama
angelo mio.

Quando mi sei vicino, non più che un fanciullo m’appari.
Le mie braccia rinchiuse bastano a farti nido
e per dormire un lettuccio ti basta.
Ma quando sei lontano, immane per me diventi.
Il tuo corpo è grande come l’Asia, il tuo respiro
è grande come le maree.
Sperdi i miei neri futili giorni
come l’uragano la sabbia nera.
Corro gridando i tuoi diversi nomi
lungo il sordo golfo della morte.

Riposa un poco vicino a chi t’ama.

Lascia ch’io ti guardi. La mia stanza percorri spavaldo
come un galante che passa
in una strage di cuori.
allo specchio ti miri i lunghi cigli
ridi come un fantino volato al traguardo.
O figlio mio diletto, rosa notturna!
Povero come il gatto dei vicoli napoletani
come il mendico e il povero borsaiolo,
e in eleganza sorpassi duchi e sovrani
risplendi come gemma di miniera
cambi diadema ogni sera
ti vesti d’oro come gli autunni.

Passa la cacciatrice lunare coi suoi bianchi alani…

Dormi.
La notte che all’infanzia ci riporta
e come belva difende i suoi diletti
dalle offese del giorno, distende su noi
la sua tenda istoriata.
I tuoi colori, o fanciullesco mattino,
tu ripiegasti.
Nella funerea dimora, anche di te mi scordo.

Il tuo cuore che batte è tutto il tempo.
Tu sei la notte nera.

Il tuo corpo materno è il mio riposo.

(1955)

 

141554166
Giulietta Masina, Elsa Morante, Sandro Penna, Pier Paolo Pasolini e Anna Salvatore
16 giugno 1958
Penna, Morante, Debenedetti e Carlo Levi

Segnalo con un (*), nel mio testo, le citazioni tratte da un contributo di Giorgio Di Costanzo con una bella recensione di Elio Pecora apparsa sul “Il Mattino” di Napoli all’uscita del volume Garzanti di Alibi; la si può leggere qui. Le immagini che qui vedete sono state reperite sul web; la seconda non porta datazione.

*

Elsa Morante (Roma 1912 – ivi 1985). Iniziò da giovane le collaborazioni a giornali e riviste, allontanandosi da una complicata situazione familiare; visse a lungo con lo scrittore Alberto Moravia, che aveva conosciuto nel 1936 e sposato nel 1941, separandosene definitivamente nel 1962. Tra i suoi primi scritti Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina (1942; nel 1959 edito come Le straordinarie avventure di Caterina). Scrittura per l’infanzia prima, mentre esplicitamente dichiarata nei primi racconti (Il gioco segreto, 1941) è la centralità della fantasticheria di Menzogna e sortilegio (1948) e L’isola di Arturo (1957). Poi i volumi Lo scialle andaluso (1963), e la raccolta di versi Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi (1968), anch’esso in versi come già Alibi (1958), quindi La Storia (1974). Infine segue Aracoeli (1982). Articoli, saggi e interventi critici, pubblicati negli anni tra il 1950 e il 1970, sono stati riuniti nel volume postumo Pro o contro la bomba atomica e altri scritti (1987); sono poi apparsi due volumi di Opere (1988-90) e le pagine inedite raccolte sotto il titolo Diario 1938 (1989). La maggior parte delle opere, qui non specificate, son ripubblicate in Einaudi; alcune si trovano ancora in Garzanti e Adelphi. Ad Elsa Morante è dedicato anche un Meridiano Mondadori. Nel 2012, è uscito per Einaudi un lungo epistolario dal titolo L’amata.

7 risposte a “Elsa Morante: poesia come “Alibi””

  1. Bellissime. Ma da Elsa Morante non abbiamo mai avuto nulla di meno.
    E la tua introduzione, Alessandra, è un dono discreto e centrato. Grazie per questa e per quelle.

    "Mi piace"

  2. Ti ringrazio Giovanna. La mia non è che una ricognizione critica, per entrare nei testi, splendidi, di Morante.

    "Mi piace"

  3. Il linguaggio di Elsa mostra i segni del tempo, ma è solo un involucro di un sentire umano a cui non siamo più avvezzi e però subito ci prende. E. è della specie degli autori diseguali, ora entusiasmanti ora deludenti, e forse per questo così amati.

    "Mi piace"