, , ,

Quando nulla rimane non resta che scriverne: Quinzinzinzili (di Giulia Bocchio)

Sono ancora io? Cosa significa questo assemblaggio di sillabe? Niente.
Più niente. Io non sono più io, sono un simbolo, il punto estremo
dell’umanità, l’uomo finale, l’ultimo.

 

 

È la prima volta che appare qui da noi in Italia Quinzinzinzili, inquietante e disilluso romanzo post apocalittico di Régis Messac, scritto e pubblicato nel 1935, a un passo dal baratro, a un passo dal secondo conflitto mondiale. L’autore, pacifista militante, era già stato ferito durante la Prima guerra mondiale, per poi essere arrestato dai tedeschi nel 1943, in una parabola discendente che lo vedrà deportato e confinato in diversi campi di concentramento in Germania. Fittizia la data della sua morte, più certa la potenza evocativa della sua penna, specie per quel che riguarda proprio questo libro, tradotto per Tlon da Michele Trionfera, e che si regge sull’unica prima persona singolare possibile, quella del narratore, ovvero Gérard Dumaurier, l’unico testimone, l’unico sopravvissuto. A dire il vero non l’unico in quanto essere vivente, l’unico in grado di rielaborare quella che è stata la storia dell’umanità sino alla sua distruzione. Il mondo è finito, è finito con un ghigno disperato, a causa di una guerra: è esplosa un’arma chimica che ha avvelenato l’aria, l’acqua, devastato l’intero ecosistema. Sono morti tutti. Tranne un uomo, otto bambini e una bambina. Si sono salvati per caso – e non per fortuna – solo perché poco prima dello scoppio della bomba si trovavano in una grotta, erano usciti in comitiva, nel cuore di una natura incontaminata, per rinvigorire i bambini, alcuni dei quali malati di tubercolosi.

Ed ecco che la storia dell’intera umanità si annulla in fretta, ingoiata in un atto unico. Il sipario di rocce e cielo cala su tutta la conoscenza, l’arte, la memoria, l’evoluzione. E se per ogni giorno che muore, c’è una notte che nasce, anche l’intera esistenza di un’umanità del futuro ricomincia. Da capo, da zero, come germoglio primordiale. Non esiste morale, non esiste linguaggio, soprattutto non esiste la tecnica. I sentimenti non hanno più un nome, scoperta, errore ed orrore hanno ora confini meno netti.
Dumaurier, in tutto questo, è la eco del ricordo e della sua stessa placida follia. Quando nulla rimane non resta che scriverne. Diventa l’autore di un taccuino che non è né Nuovo e né Vecchio Testamento, è solo la parabola post umana della cenere e del fuoco, il narratore è vivo ma dal momento che niente è sopravvissuto non resta che osservare i bambini. Li considera stupidi, ingenui, animaleschi. Ma provano a sopravvivere ed esprimono anche una certa forza, una certa indipendenza: non sono le oche selvatiche pronte a seguire un novello Konrad Lorenz, sono corpi in divenire, che si affidano ai sensi, soprattutto al tatto, l’olfatto ahimè è stato notevolmente compromesso dai gas tossici che ancora aleggiano nell’aria. I bambini hanno inventato un linguaggio nuovo, frutto di una fusione che non conosce grammatica, un linguaggio simbolico e funzionale. Dumaurier fatica a capirlo e comunque non è interessato a parlarlo.
Delle macerie, il narratore, ride, sono il collasso della vacuità umana, non c’è contemplazione romantica della rovina, non c’è la volontà di ricostruire, reinventare o insegnare all’unica generazione possibile qualcosa di utile, di indispensabile alla sopravvivenza, anche perché quest’ultima ha già attivato qualcosa di atavico e animalesco, rupestre quasi. Otto bambini che Dumaurier cataloga con crescente disprezzo e cinismo e poi c’è lei, la novella Venere, l’unica bambina del gruppo, la nuova Eva mitocondriale del futuro. Lui la svilisce moralmente anche nella descrizione del suo aspetto, ma ne riconosce il prestigio: essere donna è il suo vantaggio, è l’ape regina, è lei che sceglie il suo compagno, è lei che sceglie il corpo insieme al quale rifondare il seme della vita, anche se non ne è del tutto consapevole. E ancora una volta, è tutta una questione di istinto e crudeltà, di sottomissione anche. I bambini non conoscono il gioco, non sanno che la maturazione sessuale è prossima, ma hanno stabilito in men che non si dica una gerarchia che anticipa il potere. Gérard Dumaurier si trasforma in un cinico osservatore quasi mai partecipante: fa parte di una civiltà nuova e infantile, il suo nichilismo e la sua misantropia vivono però un paradosso: il mondo è finito e non è comunque da solo. Il silenzio è continuamente oppresso e disturbato dai riti del gruppo, che hanno i loro tabù, i loro simboli e ovviamente il loro totem: Quinzinzinzili, l’ennesima farsa, l’ennesimo dio. Non ce la fa neanche in quest’occasione, l’umanità, a sbarazzarsi di quella che un tempo si sarebbe chiamata religione, o fede.
Quinzinzinzili è uno spirito, un’entità astratta capace di tutto, soprattutto punire.
Difficile non pensare al romanzo Il signore delle mosche di Golding oppure a Dissipatio H.G. di Morselli, scritture che raccontano la solitudine e il male, il delirio e l’onnipotenza.
Il sopravvissuto che si racconta, l’uomo che non riesce più a distinguere la follia dalla ragione, è un tipo di personaggio che funziona sempre in mezzo al disastro, come una voce proveniente dall’incubo, dall’oltretomba, che tenta di rimettere insieme i pezzi della dissoluzione. Impresa meno eroica di quel che sembra, perché il flusso di coscienza di Dumaurier è solo la macabra occupazione di un disoccupato spirituale. Non è l’umanità a essere finita, la finitudine è un concetto ormai superato vista la catastrofe, è finita la speranza del suo unico anello di congiunzione: chi ritroverà il suo taccuino, che idea avrà del mondo? Di quali insospettabili bias cognitivi si servirà per interpretarlo? Non lo sappiamo. Quel che è certo è che il gruppo crescerà, si moltiplicherà addirittura, perché la bambina, ormai divenuta adolescente, partorisce un figlio: il primo nato dopo l’esplosione. Appartiene a un nuovo genere umano, che non conosce l’arte, la morale, la vanità e nemmeno il tempo. Dumaurier avrebbe potuto spacciarsi per un Quinzinzinzili, ma non lo fa, preferisce il delirio, preferisce firmare un testamento, preferisce incarnare l’estinzione di una specie. La nuova è una farsa e tutto si dissolverà nella non-esistenza:

“Adesso non so più chi sono né se sono. Il mio io si sgretola e si dissolve, sconquassato dall’ariete delle catastrofi, polverizzato dalla dinamite dei traumi mentali; sento fuoriuscire i suoi atomi dispersi e stremati dall’acido di una solitudine cosmica in un mondo raccapricciante”

In questo senso l’inquietudine di Régis Messac ci regala uno dei primi esempi di scrittura post apocalittica, con una drammatica anticipazione dei tempi: la Seconda Guerra Mondiale, la furia nazista, i campi di sterminio, l’atomica, l’alone di morte più oscuro del Novecento che a sua volta riscriverà una sanguinante pagina di storia, superando l’orrore di qualsiasi fantasia degna di un romanzo.
E i bambini? Chissà se avranno già inventato la ruota, nel frattempo…

 

Di Giulia Bocchio

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un’icona per effettuare l’accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s…

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: