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La sala delle deposizioni: il libro umido di Namī vālā – parte I (di Danilo V Paris)

Parte I


Washington, DC

 

Era il 13 Gennaio del 2024, quando Irimius Taleb entrò dentro la Library of Congress di
Washington, la biblioteca con la più vasta collezione di volumi del mondo: circa 173 milioni tra
manoscritti, documenti, spartiti musicali, mappe antiche e moderne.
Irimius era riuscito a diventare un fidato membro del congresso e per circa dieci anni di servizio
eseguì il suo lavoro in maniera precisa e obbediente, senza mai dare a vedere eccentricità o interessi particolari.
Insomma, alle 12.00 in punto, si avviò verso la sala per i moduli di richiesta e indicò: Ainu and Ezochi rare collection//Map and geographic report on Ezo, Est and West.
Un documento che fu concesso una sola volta in lettura, perché la sua fragilità non consentiva di
consultarlo senza rischiare di danneggiarlo. L’unico presente nel registro, Leonard Archea, era
stato, oltre che decennale membro, anche direttore del Congresso: lasciò irresponsabilmente quella carta incustodita nella sala di lettura e uscì dalla Biblioteca senza che nessuno lo vedesse. E nessuno lo vide più, in effetti.
Senza esitazioni, Irimius consegnò il modulo e fu condotto via dalla alta sala centrale a cupola, con le sontuose rivestiture dorate nell’auto-elogiativo stile American Reinassance, per un corridoio poco più stretto della sala, altrettanto alto, che si congiungeva perpendicolarmente a un altro che corrispondeva alla lunghezza delle mura esterne, pieno di vetrate gotiche, invase da una luce che sembrava rifrangersi un po’ troppo di più del dovuto, frammentando le figure iconiche dei Mesi in una specie di realtà virtuale ripresa come in uno di quei film astratti del cinema americano strutturalista anni Sessanta.
Doveva essere stato il sandwich, pensò, quando il corridoio, ricomponendosi in un’illuminazione
opaca e stabile, incrociò il transetto della pianta, alto circa trenta metri, in discesa, con i libri che riempivano entrambi i lati di quello che costituiva l’ingresso, oltre una porticina, all’Asian reading Room.
La sala era una torre e si poteva percorrere in su e in giù attraverso una scala a chiocciola, che
culminava in un tetto a falde spioventi con gli spigoli inferiori curvati verso l’alto.
Lo percorsero fino alla sommità dove, vicino a ognuna delle tre finestre, erano riposte migliaia di mappe, planimetrie, prospetti, progetti urbanistici, piante di interni, cartografie antichissime e tra queste, quella che Irimius cercava. Dopo che il suo indecifrabile collega gli ebbe consegnato la mappa, Irimius rimase proprio lì, sotto la finestra, dove erano disposti banchi di legno che percorrevano circolarmente il perimetro del piano, con le mani che si sforzavano di non tremare, stringendo sconsideratamente quel delicato documento di Matsuura Takeshirō, cartografo; e senza sapere perché, nonostante le sue certezze, cominciò a sentirsi infiniti sguardi provenire da punti invisibili nello spazio, occhi, condanne, promesse di incarcerazione e di torture e l’ insopprimibile sensazione che nessuno l’avrebbe mai più rivisto.
Ma cosa…si chiedeva ingenuamente Irimius. E poi si calmò, fece scendere i suoi occhi sulla mappa e comprese che quegli sguardi provenivano da lì: cos’erano tutte quelle spine, erpici, arbusti? Guardandole ebbe l’impressione che vibrassero, come i frattali in quei video sperimentali per consumatori di LSD, e che invitassero. Non c’era in quella mappa un codice da decriptare per trovare la posizione della cosa, perché la mappa era la cosa stessa, la mappa fu disegnata da Takeshirō per evadere ogni volta che un osservatore si fosse azzardato ad usarla per esaurire con la sua descrizione la realtà di quella che era… la sua casa. Quella specie di filamenti grinzosi, quando ci passò la mano sopra, sfiorandoli, senza toccarli, fuoriusciva e quasi ondeggiava, come fa un cespuglio sotto un vento impetuoso.
Infilò un dito dentro una di quelle spirali grinzose ed ecco: la mappa, come l’ultima volta, cadde
svolazzando per tutta la torre e nessuno avrebbe mai più visto Irimius Taleb.

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La galleria era piena di rovi di giada degradata e di muffe brillanti che ne rivestivano le pareti, come aveva preannunciato la mappa di Takeshirō; lunga circa dieci kilometri, i piedi di Irimius percepivano lo spazio proseguire come le note dello spartito per trenodie alle vittime di Hiroshima. I sacrificati.
La cosa era proprio lì, nel mezzo della foschia, appena qualche decina di metri dopo il passaggio,
sopra un piedistallo di felci, sorvegliato dall’editore B. L’editore B o presumibilmente… Leonard
Archea.
ਪੇਸ਼ਗੀ Pēśagī, la sala delle deposizioni era probabilmente poco oltre il confine della nebbia.
Senza dire una parola, Irimius, che era nato per trovarsi lì, si vide affidata la cosa e la sua vita fu sconvolta per sempre.
Non appena l’ebbe toccato, seppe che non avrebbe mai più scritto una parola in vita sua.
Lo aprì e dalle sue pagine sentì quella voce terribile, che mai più l’avrebbe abbandonato: non c’è vita che possa essere contenuta, perché non lo capisci? Come hai fatto a non sentire, la pioggia, il vento, l’acqua e la terra che gorgogliavano in un canto senza fine? Questo non è un racconto, è VITA e la vita vuole solo sfinirsi e noi stessi siamo questo continuo sfinirci oltre lo sfinimento.
LO RICHIUSE ALL’ISTANTE.
Irimius Taleb o meglio l’Editore C, e l’Editore B, si avviarono verso il confine del fatuo, dove tremando, oltre la cortina smerigliata della condensa, stavano quelli che sembravano palazzi oscillanti, come quelli che costruiscono per reggere i terremoti.
E subito dopo sentì una scossa terrificante: il cielo si aprì e pareva che incalcolabili, minuscoli, uomini precipitassero, ammassandosi, l’uno sull’altro, in alte composizioni squilibrate.
Ma quando entrarono nella stanza delle deposizioni, comprese che quelli non erano uomini,
ma libri, documenti, archivi, spartiti musicali, impilati l’uno sull’altro come cadaveri, suicidati via
dal mondo cosciente. Erano morti, è vero, ma non è vero che fossero libri.
L’Editore C esaminò ancora una volta la cosa, il dorso di Qiaokeli, il libro risputato fuori da Kanmare, la valle di polvere di nitrato, dove il paesaggio è una sindone concepita fotosinteticamente dalle oscillazioni di cristallizzazione degli elementi che trascinavano il passato della città sommersa nella superficie negativa: gocciolava sangue nerastro, gli si appiccicò alle dita incatramate dal traffico di scritture tagliate a pezzetti, che componevano un puzzle impenetrabile sui suoi polpastrelli sbiaditi dallo sfogliare meticoloso dei manoscritti.

Si passava quella scrittura impossibile tra le labbra scabrose e incartapecorite, mentre l’Editore B
rimuginava sulla copia fantasma di ARCA, l’aborto che insufflava nelle orecchie sorde la voce dei poeti uccisi. Ogni volta che leggeva “se le parole dei poeti uccisi affilassero le tempie gelate che pulsano di carbone sui giacigli dei mausolei paterni ceduti agli eredi, la storia chioserebbe le cerniere” un brivido gli colava come una massa densa dal portone in frantumi della sua fronte.
E poi l’incipit del poema:

“Tra remi e rocce
si smagra con gli spersi
il mio giglio”

Gli disegnava una forma vuota dentro il petto, che germogliava e pungeva gli organi limitrofi.
Tutti raggomitolati, come ciottoli, detriti, quelle montagne franate dalle navigazioni Mhyr, sgorgavano via guardando il suo cranio zuppo, in un cangiante e mormorante plotone di cartapesta.
L’Editore B prese il pugnale delle segnature e lo conficcò nel volume: l’organismo chemiautotrofo
che si alimentava ossidando la chimica inorganica si infiammò, percependo la lama fredda penetrare nelle sue viscere. Tutti i mondi straripanti gemevano per quell’assassinio: ogni parola
nuova veniva reintegrata nel verbo precedente, le lettere perdevano ogni ambiguità, per consegnarsi a un’assenza di significato sverbata via dall’incombenza dei contatti favorevoli alla sua espressione. Le pagine del libro erano solo apparentemente scritte.
Esse erano invece opache, molli, umide, gessate e cerate, grondanti, attraversate da laminature d’argento e pigmenti ocra di origini vegetali estratti dalle terre rosse, invase di limonite ed ematite, straripanti, infuse, secrete in viscosità porpora dalle ghiandole delle murici.
Le annotazioni che vi trovarono gli editori erano incise sulla cera malleabile del manoscritto, alcune cancellate, sovrascritte da nuove altre, ma eternamente conservate come traccia nello strato di cera.
Non sono carta, sono luoghi, estrazioni di un luogo, e i luoghi sono come cera: serbano stati di una scrittura che è possibile cancellare e scrivere e riscrivere più e più volte, sono la sede di un palinsesto mnemonico.
Guarda qui… – diceva l’editore B, accarezzando dei solchi che indicavano scritture precedenti, che gli inceravano le dita, rivestendole di una patina biancastra, e poi sussurrando quelle parole
invisibili:

Ma quelli restavano lì, immobili, con le bocche arse gli occhi impiastricciati di polvere nera e clorato di potassio –

L’altro, l’Editore C, lo guardava costernato, per essere riuscito ad estrarre quelle parole e subito
buttava il muso nel libro, quasi a volerci entrare dentro, tanto che il naso era letteralmente
inzuppato dentro la cerca, parendo per un istante un teriomorfo tutto nuovo, con il cranio che
lentamente si rivestiva di ramificazioni a lume di candela sciolta. Ma quelle parole non c’erano da
nessuna parte, non le vedeva.
Allora ci passò la lingua sopra. Rimase incollata nel libro, gelata, ma la fortuna valse il prezzo: i denti gli ballavano, le lettere gli zompettavano su come una lumaca sulla saliva, l’ugola era sul
punto di strapparsi, mentre mugugnava, tentando di articolare la lirica, nonostante la lingua fosse inutilizzabile, come se gliel’avessero staccata.

E l’acido pih—h—c—rich—o”, continh—uh—a”
imphhrhhhie nehh hholi hha prohhaa –

E l’acido picrico – continua – imprime nei volti la prova – ripeté scandendo, l’Editore B, per poi
levare gli occhi in alto, come colto da improvvisa illuminazione, come sapesse, senza dover leggere, il periodo successivo:
Sì… annuiva compiaciuto, passandosi la lingua sulle labbra, come avrebbe fatto una bestia in
vista di un boccone prelibato:
Prova. Quale prova? – chiedo.
Quale prova chiedevo è necessaria nell’arsura a stringhe di placenta?”.

Una risata, lunga e fragorosa, che staccò anche l’altro con violenza dalla pagina, colse il duo di
analisti, con le lingue bruciacchiate, i denti che cascavano, le lacrime che gli infiammavano le guance e le spalle inarcate, con le braccia pendule e flosce, come gorilla, che spasmodicamente facevano su e giù.
Uno strato delle labbra dell’Editore B era stato completamente strappato, le parole incise su
quello sottostante, mentre l’altro aveva la lingua che gli pendeva fuori, nera e pustolosa.

– E il suo autore?, chiedeva l’Editore C.
– Non vede? È questa pietra, tagliata a filo di carta patinata.
– È avvenuta la consegna delle braci: il suo autore brucia nell’anima della pietra gettata in mezzo a tutte le altre che scricchiolano sotto di noi. Migliaia, milioni, che scricchiolano come ossa fatte a
pezzi, edificano la città morta, su cui la superficiale si sviluppa. I libri morti crollano e sorreggono i piani superiori.

Qualcosa sembrò gorgogliare nelle loro bocche: un calembour, una babele irritante di parole ingestibili, si pronunciava nelle loro bocche serrate in quell’anelito di esprimere il lancio delle scritture in un bacio promiscuo. Venature trapassavano quelle lingue attorcigliate e le parole escluse prendevano forma in quelle bocche-caverne espandendone la cavità. Cominciarono a boccheggiare, annaspavano davanti alle infinite scaffalature di ebano, che ondeggiavano al vento del paesaggio bianco della Stanza, mentre una copia dell’Impero assorto di Angelica Gorodischer volteggiava incenerita e tradita tra tutte quelle cose che furono scritte come un plotone che viene giustiziato.
Si disse che il loro inferno consistette nel non poter più uscire da quell’incebaschio di scrittura
scongiurata dal nascere, quella scrittura possibile che divenne tutto il loro reale, esaurendone i
confini. E l’Impero assorto divenne il regno di cui erano re e schiavi allo stesso tempo, smarriti e
vaganti in quel polverio confuso d’occhi.

 

 

Continua….

 

Di Danilo V Paris

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