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Il demone dell’analogia #69: Farfalla

«Una strana amicizia, i libri hanno una strana amicizia l’uno per l’altro. Se li chiudiamo nella mente di una persona bene educata (un critico è soltanto questo), lì al chiuso, al caldo, serrati, provano un’allegria, una felicità come noi, esseri umani, non abbiamo mai conosciuto. Scoprono di assomigliarsi l’un l’altro. E ognuno di loro lancia frecce, bagliori di gioia verso gli altri libri che sembrano (e sono e non sono) simili. Così la mente che li raccoglie è gremita di lampi, di analogie, di rapporti, di corti circuiti, che finiscono per traboccare. La buona critica letteraria non è altro che questo: la scoperta della gioia dei libri che si assomigliano».
Mario Praz

 

Collage digitale by Dina Carruozzo Nazzaro

IL SOGNO

lascia gli agnelli all’acqua
il cardo azzurro
così fitto tra l’erbe
mai l’ha visto,
e le farfalle sopra
sono milioni,
bianche o marrone-chiaro
o cilestrine,
ah!, quel prato in discesa
cerchiato d’olmi
che dà sui Monti spogli
della Luna,
morbido più del pane
appena cotto,
chiaro come l’acqua
del fosso con la spuma,
se mastichi il lupino
è dolce quanto
il bianchello di Ca’ Morciano
tondo e maturo,
e lui sale tra i cardi,
dopo s’arresta,
sprofonda con la testa
dentro l’erbe,
s’ubriaca d’aria
tra le ginestre

e venne la farfalla
luminosa,
dalle grandi ali
colme di segni scuri,
fanno spazio le altre
e vanno via,
s’alza alta
tra i cardi la regina,
sfiora l’acerbo frutto
del pruno viola,
sulla stellaria bianca
posa le ali,
dopo riprende il volo
e mai s’arresta
e il pastore la segue
abbacinato,
le pecore giù all’acqua
ormai ha scordato,
dimentica la casa
coi noci grandi
chi seduto lo attende
nelle panche

e cammina, cammina
il campo è immenso,
la cima sempre là,
sempre distante,
ma la farfalla vola
oltre la punta,
scende nell’universo
che sta accanto

allora lui si ferma,
si butta in terra,
steso nella lunaria
volta il capo
al cielo che s’oscura
e che si riempie
di stelle grandi e quete
– fluttuano, ma appena
come candele –
di fuochi svelti
a correre
e svanire

ora il pastore dorme
la farfalla forse vola lontano,
nell’altro cielo,
forse è la fata Morgana
e non temere,
dove io ti conduco
il vento è lieve,
non sudano i pastori
per i campi,
il latte ce n’è tanto
scorre il miele,
nascono grandi le more
e senza spine,
tu scorda greppi
e rovi
e l’altra gente

e se n’andò il pastore
per i cieli,
ma poi chiede a Morgana
di tornare

la terra aveva tremato
dappertutto,
dalla Petralata alle grandi Selve,
i campi ribaltati
come cristiani
che ritrovano morti
in fondo ai fossi,
il cielo tutto nero
con i lampi,
le case schiantate
giù per i greppi
e le bestie stecchite
nell’erba bianca

vede la casa sua
anch’essa rotta,
verso quella s’affretta
e si dispera
ché forse più non l’abita
persona

Primi di agosto 1997

Da Nel tempo che precede di Umberto Piersanti

 

Ho appena letto una poesia
sul cuore delle farfalle. Che tenere.
Be’, non ce l’hanno un cuore le farfalle.

Da Cedere e altre cose dette d’amore di Alessandro Ardigò

 

DELLA CAVOLAIA
Pieris brassicae

Se la Vanessa ed il Papilio sono
nobili forme alate e dànno immagine
d’un cavaliere e d’una principessa,
la Pieride comune fa pensare
una fantesca od una contadina.
È volgare, dal nome alla divisa
scialba, dal volo vagabondo al bruco
nero-verde, flagello delle ortaglie.

Ridotte queste a nuda nervatura,
i bruchi vanno su pei muri a mille,
fissano le crisalidi alle mensole,
ai capitelli, ai pepli delle statue,
curïose crisalidi, sorrette
alla vita da un filo e non appese,
angolari, sfuggevoli, aderenti,
concolori così col marmo e il muro
che lo sguardo le fissa e non le vede.

Se tutte si schiudessero, la Terra
sarebbe invasa d’ali senza fine.
Ma gran parte ha con sé, già nello stato
di bruco, i germi della morte certa.
Chi s’aggiri in un orto vede all’opra
il Microgastro, piccolo imenottero
dall’ali e dall’antenne rivibranti,
smilzo, cornuto, negro come un dèmone.
Vola, scorre sui bruchi delle Pieridi,
inarca, infigge l’ovopositore,
immerge nei segmenti della vittima
il germe della morte ad ogni assalto.
Ad ogni assalto il bruco si contorce,
ma quando il Microgastro l’abbandona
non sembra risentirsi dell’offesa:
cresce, vive coi germi della morte…

Vive e i germi si schiudono, le larve
del parassita invadono la vittima
ignara; ne divorano i tessuti,
ma, rette dall’istinto prodigioso,
non intaccano gli organi vitali.
Il bruco vive ancora, si tramuta
sognando il giorno del risveglio alato;
ma gli ospiti hanno uccisa la crisalide,
la fendono sul dorso e dalla spoglia
non la Pieride bianca, ma s’invola
uno sciame ronzante d’imenotteri.

Come in questa vicenda e in altre molte,
la Natura, che i retori vantarono
perfetta ed infallibile, si svela
stretta parente col pensiero umano!
Non divina e perfetta, ma potenza
maldestra, spesso incerta, esita, inventa,
tenta ritenta elimina corregge.
Popola il campo semplice del Tutto
d’opposte leggi e d’infiniti errori.
Madre cieca e veggente, avara e prodiga,
grande meschina, tenera e crudele,
per non perder pietà si fa spietata.

E quando vede rotta l’armonia
riconosce l’errore, vi rimedia
con nascite novelle ed ecatombi.
Essa accenna alla Vita ed alla Morte;
e le custodi appaiono, cancellano,
ritracciano la strada ed i confini.

La Cavolaia predilige gli orti,
l’attira il bianco delle case umane;
se scorge un muro, subito s’innalza,
lo valica, discende alla ricerca
di compagne festevoli ed ortaglie.
E l’istinto sovente la sospinge
nel cuor della città. Da primavera
a tardo autunno, giunge nelle vie.
E nulla è strano, come l’apparire,
dell’inviata candida degli orti
tra il rombo turbinoso cittadino.
Allora s’interrompe il ragionare
dell’amico loquace: – Una farfalla! –

Com’è giunta nel cuor della città?
Aveva la crisalide sui colli
oltre il fiume, nell’orto di una villa.
L’istinto delle razze numerose
sospinge la farfalla ad emigrare;
discese al piano, trasvolò sul fiume,
valicò gli edifici, immaginando
orti propizi e si trovò perduta,
prigioniera nel grande laberinto
di pietra che costrussero gli uomini.
Da ore ed ore, forse dal mattino,
s’aggira stanca per le vie diritte
dove non cresce un filo d’erba o un fiore.
Come si specchia nei diciottomila
occhi stupiti il turbinìo dell’uomo?
Forse a quei sensi minimi, la folla,
le case, i carri, quei corpi grandi
sono come la frana, il fuoco, l’acqua,
fenomeni malvagi da fuggirsi.
Fugge. L’attira un cespo semovente
di fiori finti, un cencio verde, azzurro,
si libra sulla folla, sull’intrico
metallico, tra il rombo e le faville,
e va senza riposo, un carro passa
e la travolge nella scia ventosa…
Con volo ravvivato dal terrore
cerca uno scampo in alto, sale obliqua
contro le case, attinge i tetti, il sole;
si ristora ad un cespo di geranii,
fugge lasciando un lembo d’ala a un mostro
tentacolare e candido: una mano;
vola sopra il deserto delle tegole
né più discende nelle vie profonde,
va tra la selva di colmigni spessi,
da tetto a tetto, va senza riposo.
Ed ecco aprirsi sotto la randagia
l’abisso verde di un giardino; scende
scende verso il colore che l’attira.
Il giardino è degli uomini: ingannevole.
Vi trova l’erba tenera, le fronde,
i fiori, una brigata di sorelle
sbandite, riparate in quell’oàsi.

Ma l’erba cittadina non ha steli;
gli alberi, mostri ignoti d’oltremare,
non hano nella fronda coriacea
un fiore. E l’uomo meditò nel fiore
l’ultima frode: suggellò il nettario,
con arte maga trasmutò gli stami
in multiple sorelle mostruose.
Le Pieridi s’aggirano sui fiori
tentano le azalee ed i giacinti,
ma le corolle suggellate al bacio
son come belle donne senza bocca.
Poche Pieridi trovano la via
dei campi. Grande parte è prigioniera
del chiuso laberinto cittadino;
e nel triste detrito che raccoglie
la scopa mattinale delle vie
biancheggiano falangi d’ali morte…

Da Le farfalle – Epistole entomologiche di Guido
Gozzano

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