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Il dono dell’indovino Tiresia e il ‘Dolore minimo’ di Giovanna Cristina Vivinetto (a cura di Annachiara Atzei)

 

Contro natura: in opposizione alla vita.
E invece no, in Dolore minimo (Interlinea) Giovanna Cristina Vivinetto decide chi vuole realmente essere e ci accompagna in un viaggio che si spinge dentro un’esistenza rinnovata e più umana perché liberata dal peso della anormalità e del pregiudizio.
L’autrice siracusana è la prima a trasporre in versi la sua esperienza di donna transessuale e nel 2022 la raccolta ispira la serie tv Prisma (Amazon Prime), in cui si parla di fluidità di genere e del coraggio di rivelarsi per quello che si è. Come lei, un’altra giovane scrittrice italiana – la fumettista Josephine Yole Signorelli – firma con lo pseudonimo Fumettibrutti il libro Trilogia esplicita (Feltrinelli), che raccoglie in un unico volume le sue precedenti pubblicazioni e descrive l’angoscia e la necessità di giungere all’accettazione della propria identità, a dimostrazione di come la letteratura dia sempre più spazio alle istanze della contemporaneità.
“C’è questo in me – scriveva Walt Whitman – io non so cosa sia, ma so che c’è”: attorno allo stesso convincimento ruota anche il lavoro individuale e artistico di Vivinetto la cui disforia deriva dal sentirsi intimamente non conforme rispetto al genere assegnato alla nascita. In queste pagine si parla di una genesi scelta e attesa. La scrittrice si sente figlia e madre allo stesso tempo, disposta a lasciar andare una sua parte per cedere il passo al lato femminile, ma mantenendo sempre uno spiraglio tra Giovanni e Giovanna attraverso il quale il sé di ieri e quello di oggi possano tendersi reciprocamente la mano. Nel far ciò, svela una contiguità, una parentela tra universi interiori così come quella che c’è tra gli esseri viventi e quanto li circonda (Ovidio la immaginava addirittura tra uomini e dei), cioè una mobilità del tutto che non va rinnegata, ma portata alla luce con forza. Se disconoscere se stessi significa persino dimenticarsi di essere vivi, allora vale la pena ascoltare la voce interiore, arrendersi al suo bisbiglio e nutrirla: darle ragione. Il nuovo nome invita a venire al mondo, mette ordine al groviglio della mente e consente di superare la sofferenza di una asserita predestinazione.

 

Magritte, Pure reason

Vivinetto – i cui testi si muovono sapientemente nel solco della tradizione poetica – utilizza parole che offrono a chi legge un punto di vista sulle cose autentico e illuminato e auspica che la sua idea dell’essere umano non resti teoria astratta e fuori dall’ordinario. “Il fatto è che un corpo come il mio/ quando s’incastra a un altro corpo/ non è più transessuale. Quando/ si lega a una carne che accoglie/ forse non è più nemmeno un corpo”, dice l’autrice che, quasi a voler per un momento annullare l’ingombro della figura, sposta il focus dalla fisicità dell’atto sessuale alla spiritualità del sentimento per farne il centro della riflessione. La poetessa, che prima di prendere coscienza di chi fosse davvero si percepiva divisa e parziale, ricerca anche con la scrittura la completezza personale e dimostra di trovarla solo nell’accogliersi senza condizioni.
Poiché il confronto con un sé sempre in divenire lascia cadere maschere ed etichette e prepara ad aprirsi all’esterno con maggiore consapevolezza, resta da chiedersi se gli altri sono pronti all’ascolto, o se ancora in questo tempo si vive meglio restando sordi a urgenze non condivise. Nel film La forma dell’acqua, Guillermo Del Toro racconta che la diversità è una minaccia solo per chi si chiude a ogni tipo di comunicazione e che anche chi appare come lontanissimo da noi è perfetto nell’imperfezione e capace di meraviglia e amore. In Dolore minimo succede lo stesso: il mostro diventa più docile quando lo si prende per mano e il corpo smette di essere la sola dimensione possibile, mentre il bene appare come la giusta lente attraverso cui guardare e guardarsi: “I miei/ dilemmi sono annidati ben oltre la carne./(…) Risulta più difficile scovare/ le menomazioni della mente,/ determinare con esattezza/ le idee che regolano l’identità, /
l’umore, l’amore che ci tiene in piedi”. Con quel “transito che rivolta le zolle” – le stesse che sono metafora dell’origine nell’opera di Alda Merini – Giovanna Cristina Vivinetto si assolve per le tante cose che a lungo non è riuscita a comprendere e ad ammettere e, così facendo, apre un varco in un preconcetto diffuso e subdolo per ribadire attraverso il suo percorso e la sua poesia che nell’amarsi non c’è mai niente di sbagliato.

Di Annachiara Atzei

 


Cinque poesie da “Dolore minimo” (Interlinea, 2018)

A quel tempo ogni cosa
si spiegava con parole note.
Sillabe da contare sulle dita
scandivano il ritmo dell’invisibile.

Tutto era a portata di mano,
tutto comprensibile
e immediatamente dietro l’angolo
non si annidava ancora l’inganno.

La poesia era uno scrupolo
d’altri tempi, un muto richiamo
alla vera natura delle cose.
Così dissimulata da confondersi
con i palloni, con le bambole
dell’infanzia.

In quei tempi non c’erano disastri
da centellinare, difformità
da curare dentro abiti larghi,
padri da rifiutare e nomi
da pedinare in fondo agli stagni.

Finché non è arrivato il transito
a rivoltare le zolle su cui passo
aveva indugiato, a rovesciare
il secchio dei giochi – richiamando
la poesia invisibile che mi circondava.

Non mi sono mai conosciuta
se non nel dolore bambino
di avvertirmi a un tratto
così divisa. Così tanto
parziale.
*

Quando nacqui mia madre
mi fece un dono antichissimo,
il dono dell’indovino Tiresia:
mutare sesso una volta nella vita.

Già dal primo vagito comprese
che il mio crescere sarebbe stato
un ribelle scollarsi della carne,
una lotta fratricida tra spirito
e pelle. Un annichilimento.

Così mi diede i suoi vestiti,
le sue scarpe, i suoi rossetti;
mi disse ‹‹prendi, figlio mio,
diventa ciò che sei
se ciò che sei non sei potuto essere››.

Divenni indovina, un’altra Tiresia.
Praticai l’arte della veggenza,
mi feci maga, strega, donna
e mi arresi al bisbiglio del corpo
– cedetti alla sua femminea seduzione.

Fu allora che mia madre
si perpetuò in me, mi rese
figlia cadetta del mio tempo,
in cui si può vivere bene a patto
che si vaghi in tondo, ciechi
– che si celi, proprio come Tiresia,
un mistero che non si può dire.
*

Non ho ferite che appaiono. I miei
dilemmi sono annidati ben oltre la carne.
Eppure chi mi definisce addita
il corpo come sola dimensione possibile.
Come se la colpa fosse tutta
tra le gambe o nel tono della voce
in un cromosoma destinato
a dover restare tale e quale.
Risulta più difficile scovare
le menomazioni della mente,
determinare con esattezza
le idee che regolano l’identità,
l’umore, l’amore che ci tiene in piedi.
Ma il corpo non mente: non nega
la sua terrosa concretezza,
non allude, non travisa, c’è
e si espone, materializza.
Il corpo è solo, perciò è esatto,
circostanziato, dunque corruttibile.
E questa è sua debolezza
e sua corticale potenza.
Assediata, piegata, avvilita
è l’unica forma sana che mi rimane.
*

Noi eravamo fra quelli chiamati
contro natura. Il nostro esistere
ribaltava e distorceva le leggi
del creato. Ma come potevamo
noi, rigogliosi nei nostri corpi
adolescenti, essere uno scarto,
il difetto di natura
che non tiene? Ci convinsero,
ci persuasero all’autonegazione.
Noi, così giovani, fummo costretti
a riabilitare i nostri corpi,
obbligati a guardare in faccia la nostra
natura e sopprimerla con un’altra.

A dirci che potevamo essere
chi non volevamo, chi non eravamo.
Noi gli unici esseri innocenti.
Gli ultimi esseri viventi, noi,
trapiantati nel mondo dei morti
per sopravvivere.
*

Tutto si chiude su te per celebrarti.
Ma quel che sento non è l’ardore
della festa, il riso sproporzionato
dei bambini. È l’angoscia composta
del funerale che si scioglie.
Il sollievo triste di un malanno
che si è consunto sotto terra – e non può
più ferire. Questa minuscola vita
che pareva non esigere nulla
da te, sappi, ti deve tutto.
Quante volte, già da bambini,
l’idiozia del crescere ti rinnegava.
L’ansia di dovercela fare da soli.

E ora che ho imparato ad amarti,
tu, sofferta mia consolazione, tu ora
hai deciso di non esserci più.
Ora che una grande paura mi prende.
Ora che so di dover andare sola.

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