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Prega ogni giorno che basti una lucciola per dar fuoco al mondo: Giorgiomaria Cornelio, ‘La specie storta’ (di Giulia Bocchio)

 

 

Quaggiù ogni cosa tende all’intoppo. È bestia secca, rifugio alto di veleno.
Noi cerchiamo l’epoca prima del nome proprio. Cresciamo dentro carcasse
estinte. Non divoriamo, non facciamo spergiuri.

 

 

È difficile restituire l’altitudine di un abisso, l’ossimoro che si incastra fra denti e palato quando leggi un’opera così: La specie storta, di Giorgiomaria Cornelio (Edizioni Tlon). Una chiamata a raccolta di favole, poesie, cenere e corpi.
Le parole e i versi all’interno di questo libro hanno dissotterrato in me una sensazione.
Ero una bambina, ed era il pomeriggio grigio di un Venerdì santo. Sacra tradizione delle tradizioni, mia nonna mi portava sempre in una piccola chiesa barocca del paese, che aprivano solo in quella specifica occasione in virtù della speciale esposizione di un crocifisso ai piedi dell’altare. Dunque in questa chiesa piccola, oscura, rosicchiata dal tempo, un uomo morto era lì e giaceva ai piedi di chiunque vi entrasse. Era realistico, ma senza risultare grottesco, nonostante l’abbondanza di strisce di sangue che sembravano dividergli gli arti in parti uguali. Quel giorno in chiesa c’erano altre signore anziane che parlavano con mia nonna, il loro argomento non era la Pasqua, era molto più profano: congetture fantasiose sul perché un’altra mancasse. E mentre le loro voci facevano da sottofondo io ho provato a sfidare la paura che mi faceva quell’immagine cruda e mi sono avvicinata alla croce. E l’ho annusata. Sapeva di legno e di cera, di cantina. È l’odore che devono certamente avere le reliquie nelle teche delle cripte abbandonate.
“Brava che hai baciato Gesù”, mi ha detto poi mia nonna, testimone a metà – come tutti gli esseri umani – delle pulsioni degli altri. Lei aveva scambiato la mia prova personale per devozione. È una metafora del mondo anche questa. Il mondo che racconta Giorgiomaria Cornelio è una voragine al contrario e l’attraversamento necessario avviene solo tramite interramento, perché ciò che conta è riesumare il tutto per ritrasformarlo. Errori e orrori a maggese, lì sulla pagina nuda.
All’interno della raccolta ci sono poi le immagini essenziali di Giuditta Chiaraluce, che fungono da impronta visiva, come una pittura rupestre adatta a qualsiasi geografia, indipendentemente dalla lingua parlata dall’osservante.
Ma lingua e linguaggio sono aspetti che non firmano mai un vero armistizio ed ecco che nella combinazione dei testi ci sono elementi naturali ed elementi corporei che invocano una rinnovata crasi, coloro che appartengono a una specie storta non sono esseri finiti, sono esseri che hanno un rapporto convulso con la gestazione di loro stessi. Vorrebbero partorirsi da sé, sarebbe una svolta.

 

È come se dal fondo di un pozzo, che scende fino alle viscere della Terra, parlasse un oracolo. Potrebbe aprirsi dinanzi a noi un mondo nuovo e dunque quale forma abbracciare Essere o Avere? Essere l’osso frantumato che concima i sentieri di una transumanza di sensazioni diversamente umane o Avere il midollo polverizzato, utile a divenire polline per il nostro stesso rifiorire? La vera differenza sta nel racconto. Favole e versi, ne La specie storta, ripercorrono un tratto ancestrale della nostra memoria frammentata, influenzata continuamente da elementi religiosi – biblici –  zen – filosofici. E l’innocenza è una condizione sopravvalutata, meglio una diaspora di nervi, meglio l’autenticità storta.
È un’epopea che avrebbe incuriosito anche Odisseo, una sua versione più moderna, concreta e fluida, perché non possiamo sperare in niente se non siamo disposti a ricercare l’attraversamento di qualcosa. È personale per ognuno di noi questa partenza. Un diluvio può anche non accadere ma le conseguenze della sua attesa e della sua non-venuta smuovono comunque qualcosa, come gli intestini e le zolle del terreno. La potente scrittura sciamanica di Giorgiomaria evoca in qualche modo un altro paesaggio tanto letterario quanto parallelo e onirico, che affonda le radici dell’esistenza in una danza continua fra vita e morte, l’inquietante villaggio che sorge lungo le pendici del Monte Capraro: Masserie di Cristo, raccontato nei romanzi di Andrea Gentile. I sentieri poetici della transumanza potrebbero condurre davvero all’Isola del Fosco Granaio, oppure da nessuna parte, sono metafore, non antropologia da manuale: i nostri sensi sono strumenti e come tutti gli strumenti, hanno dei limiti. Ma anche la storia di un limite – la storia stessa della finitudine –  conserva qualcosa che non smette di essere tramandato. L’oralità dell’ombra, che solo in apparenza non possiede profondità. La specie storta di cui scrive l’autore scava fra queste ombre, scava nelle fondamenta.
Potrebbe anche albergare lì l’ignoto e tu potresti scoprire che non ti stava aspettando, si stava solo proteggendo.
Qualunque sia il destino del mondo, la letteratura e l’arte fanno questo: sono l’unica negromanzia possibile dell’esistenza.

 

Di Giulia Bocchio


GIORGIOMARIA CORNELIO è poeta, regista, curatore, redattore di «Nazione Indiana». Ha codiretto la Trilogia dei viandanti (2016-2020), presentata in festival e spazi espositivi internazionali. Suoi interventi sono apparsi su «Doppiozero», «Il Tascabile», «Antinomie», «L’Indiscreto». Ha vinto il Premio Opera Prima con la raccolta La Promessa Focaia (Anterem, 2019). Per Luca Sossella Editore ha pubblicato La consegna delle braci. Cura il progetto Edizioni Volatili.

Una replica a “Prega ogni giorno che basti una lucciola per dar fuoco al mondo: Giorgiomaria Cornelio, ‘La specie storta’ (di Giulia Bocchio)”

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