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L’ultimo imperdonabile. Su “Tre imperdonabili” di Matteo M. Vecchio (a cura di Fabio Michieli)

Salto i preamboli, le giustificazioni, e dichiaro sfacciatamente che Matteo M. Vecchio è stato nella sua vita un imperdonabile di pari grado alle sue amate imperdonabili: intransigente, meticoloso, fedele a sé stesso e al suo sentire, critico acuto e sensibile, costantemente teso all’ascolto e alla ricerca della verità. Ma soprattutto non disposto ad accettare le vulgate critiche consolidate e fondate su pregiudizi di base, moralistici prima ancora d’essere moraleggianti. «In epoche come la nostra di grande crisi, io penso […] si debba riproporre quel concetto di imperdonabilità che è strettamente connesso a una visione delle cose ben distante dalla visione comune, dall’opportunismo comune, dalle dinamiche che, in qualche modo, infestano la nostra contemporaneità e la nostra antropologia (al di là di una connotazione temporale e spaziale)». Questo afferma Matteo all’avvio della lezione dedicata a Emily Dickinson, prima delle lezioni ora raccolte in Tre imperdonabili, volumetto curato da Silvia Giacomini e edito da Le Cáriti; e prosegue dando un’ulteriore definizione di ciò che rende imperdonabile un individuo, uomo o donna che sia: «imperdonabile è dunque colui, o colei, che si sottrae – in una lotta del tutto pacifica ma non per questo incruenta – alle dinamiche opportunistiche e degradanti del proprio tempo; è colui, o colei, che ragiona con la propria testa, che oppone a quella indifferenza e quella superficialità che lo/la turbano una visceralità in cui vita e pensiero si stratificano e reciprocamente si vivificano»; in definitiva l’imperdonabile «è una persona che crea in una dimensione eminentemente esistenziale, cioè crea per vivere, scrivere per vivere, trova nella scrittura e nell’arte la propria dimensione di libertà esistenziale, di pacificazione esistenziale, e che, in qualche modo, intride di questa attività creativa la propria vita.»
Ecco, Matteo è stato tutto ciò. Le sue pagine critiche, come pure le parole che gli uscivano con la viva voce – di cui questi tre scritti sono la fedele trasposizione –, erano «asciutte e dure come i sassi e come gli ulivi», rubando all’amata Antonia Pozzi questo perfetto chiasmo presente in una lettera a Lucia Bozzi, non a caso citata nella seconda lezione, quella dedicata alla poetessa milanese. Dico “non a caso” perché c’è, nella presentazione che Matteo tenne della figura e della poesia di Antonia Pozzi, un’adesione alle istanze esistenziali della poetessa – anche se, a dire il vero, Matteo sentiva una maggiore affinità con Cristina Campo – senza che queste subiscano il peso di quell’ingombrante macigno calatole dall’alto da quelle che, ironicamente (e sarcasticamente a volte), io e lui chiamavamo in privato “le pie donne”, ovvero le curatrici e autoproclamate depositarie della verità pozziana, che è in realtà una forzatura non meno violenta di quella praticata inizialmente dal padre della giovane sventurata. Quella sacralità «naturalmente laica», serenamente eppure perentoriamente da Matteo riconosciuta come cifra fondamentale dell’esistenza di Antonia Pozzi, emerge in questo scritto che mostra un rigore assoluto, quasi non risentisse per nulla della sua natura orale. Emerge, e si avverte, in ogni singola parola usata, soppesata, tutto il rispetto per la scrittura pozziana. Vale la pena riportare questa breve osservazione: «Antonia Pozzi non è dogmatica né confessionale, ma ha una vocazione religiosa forse più vicina a Giordano Bruno, in merito al quale abbozza una saggio.» Mi risulta che solo Matteo abbia cercato di portare all’attenzione dei lettori di Pozzi, ma pure a quella dei cultori e degli studiosi, questo aspetto della religiosità della giovane, un nodo critico in grado di scompaginare e sbaragliare decenni di «tentate riduzioni dogmatiche e confessionali», come già nel non troppo 2014 ebbe a dire in Dittico su Antonia Pozzi (nel 2017 confluito in Sguardi su Antonia Pozzi, Le Cárite).
Dicevo poco sopra che Matteo da sempre sentiva di avere un più profondo legame con Cristina Campo; un rapporto che non aveva ancora trovato però la via di esprimersi criticamente in egual misura al percorso critico affrontato per Antonia Pozzi. Al pari della Campo, Vecchio non volle entrare in sintonia con il suo tempo, diventandone di fatto un acuto osservatore e fustigatore. E in quanto imperdonabile fustigatore non sorprende, nella lezione campiana, l’azzardato ma ben argomentato accostamento della scrittrice a Pasolini per una riconosciuta simile posizione “antimoderna”; Matteo spiega – e lo fa in una postilla che segue la lezione vera e propria – che la campo era «era un’antimoderna come Pasolini, intendendo il moderno come la dissoluzione di un’identità». Un accostamento che obbliga chi ora legge queste pagine a rivedere le nozioni personali e tentare questa possibile nuova strada che ricontestualizza l’opera di questa autrice ancora misteriosa e non studiata abbastanza, ci dice il nostro; e in questo monito emerge l’intenzione di volere affrontare l’opera di Cristina Campo in modo sistematico e completo, scovando i continui rimandi che le pagine campiane tessono; e non stupisce il fatto che la lezione a lei dedicata muova più da Le lettere a Mita per poi scendere nelle poesie, perché il continuum campiano è custodito nelle lettere, mentre la poesia segna due precise stagioni che solo la lettura dei carteggi consegnano nella loro luminosa potenza.
Altro aspetto in grado di captare l’immediata attenzione del lettore meno distratto è l’ipotesi avanzata, in vero, sia per Campo sia per Dickinson di essere state le scrittrici affette da una qualche forma di neuro-diversità che le portava a percepire la realtà circostanziale in modo diverso, non conforme, e come tale poi tradotto dalle due nella carta. Ipotesi, certo, che Matteo Vecchio avrebbe cercato di sviscerare e tradurre a sua volta in tesi se la malattia gli avesse concesso più tempo.
Ci guida alla corretta comprensione di queste lezioni, infine, la nota introduttiva di Silvia Giacomini; una nota che non solo ci trasmette il portato di un certosino lavoro di recupero di questo materiale prezioso, ma mostra pure il rispetto delle posizioni critiche di Matteo Vecchio insieme alla padronanza e alla compenetrazione delle stesse; il che può accadere solo quando c’è una condivisione di istanze, discusse e sicuramente ridiscusse in fase di progettazione del ciclo di lezioni che vide Matteo e Silvia fianco a fianco. Sicché, come conclude Giacomini, queste pagine sono la fotografia di una «esposizione […] anche gestuale, corporea […], mai prevedibile. Emanazione di un sapere perennemente sorgivo

A cura di Fabio Michieli

Una replica a “L’ultimo imperdonabile. Su “Tre imperdonabili” di Matteo M. Vecchio (a cura di Fabio Michieli)”

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