
La Mar: in spagnolo, sostantivo femminile. Lo sa bene Francesco Accattoli, che studia linguistica, letteratura e traduzione presso l’Università di Malaga e che non a caso sceglie di dare proprio questo nome alla sua raccolta poetica. Il termine è così declinato tra la gente della costa ed esprime il legame vitale tra gli uomini e l’acqua. La stessa connessione che sente l’autore e che, attraverso la combinazione di poche ma efficaci immagini, permea tutto il libro.
Il mare qui descritto è dominato dall’inverno e crepato dal freddo: le sue maglie hanno ceduto. Il fondale è nero e il vento lo incide e lo schiaccia. Pochi sono i pesci e le reti strappate. Dietro un titolo che, per il suono, rimanda all’amar – alla dolcezza del sentimento d’amore – di certo il lettore non si aspetta di trovare uno scenario cupo e respingente. Come nelle stampe di Hiroshige e Hokusai, il paesaggio non è soltanto uno sfondo, bensì materia viva, il vero soggetto del racconto in cui i personaggi si inseriscono, mescolandosi alle onde: nell’affrontare le correnti e cimentarsi con esse rivelano tutta la loro dimensione umana.
Il volume si apre con un verso che dà subito la misura del rapporto che il poeta ha con questo elemento: “L’odore è piantato nel freddo./ Sulla balza del porto/ si asciugano le strade”. Già dall’inizio avvertiamo che quello di Accattoli è un mondo che si mostra nei suoi aspetti più disturbanti e, per questo, senza menzogna. Non c’è nessun filtro narrativo che renda la lettura rassicurante e tuttavia, nel tracciare i cambi di intonazione e i silenzi improvvisi dei luoghi, i componimenti catturano l’attenzione come la luna esercita la sua forza gravitazionale sulla massa acquea.
Il modo in cui riesca in questa tessitura letteraria è presto detto: Accattoli ha dimestichezza con l’ambiente marino e lo abita quotidianamente. Lo ama da dentro e da dentro lo guarda: come un amico che si conosce nel profondo, o come una madre. In questo, ricorda un gigantesco autore della letteratura di mare, Herman Melville – definito da Cesare Pavese “baleniere letterato” – il quale trascorse gli anni della sua giovinezza su navi baleniere e da guerra, nel Pacifico e nell’Atlantico e che, una volta sbarcato, portò nella sua scrittura “quel senso continuo dell’enorme, del sovrumano” – così scrive ancora Pavese in uno dei suoi saggi – che affascina per il permanere del senso di mistero.
È questo il perimetro in cui il poeta si muove, pur se incerto e cangiante: “In fondo alla baia si allunga il canale,/ nella darsena è palude,/ il segno dell’acqua sulle murate/ è il confine” ed è per lui un continuo richiamo: “L’acqua che non si beve/ ti chiama oltre il promontorio”.
Talvolta la marea bussa, arriva nel sonno e si insinua nel letto durante la notte catturando i sogni e pervadendo il desiderio dello scrittore che in quest’opera lascia trasparire il suo lato più intimo: “Non voglio essere uomo, voglio essere acqua,/ oppure alga, curare/ il mare,
respirare, esalare// ossigeno, scoprire nel fondo le tane/ di chi vive occulto o raramente,/ per fuggire la rete, il ventre”, scrive.
Percepisce quale sia la sua vera essenza e continuamente vorrebbe tornare dove egli stesso si riconosce: “Galleggiano i foulard,/ acqua madre, utero, espulsione,/ esplodono in un canto le scogliere”. L’acqua diventa così strumento di autocoscienza: farsi onda, alga o aguglia significa recuperare la propria individualità allorché il continente resta il luogo del mal di terra e delle cose insolubili: l’uomo è in balìa dell’incertezza del “fuori” mentre il mare colma i vuoti, purifica, ascolta le preghiere e mantiene la promessa del ritorno. Al suo interno, non è dato percepire l’odore dell’altro, ma ci si riconosce con il tocco, attraverso la fluidità e la trasparenza, come se il singolo dovesse trovare una nuova grammatica, un diverso codice per trasmettere l’idea di sé.
Ecco cosa succede qui: in un ricorrente gioco di immedesimazione nel quale la natura diviene il ritratto della parte più nascosta, Accattoli ci insegna la calligrafia delle acque, nella certezza che i flutti possano diventare latitudine di ciascuno.
A cura di Annachiara Atzei
Cinque poesie da La Mar (Amos Edizioni, 2021)
L’odore è piantato nel freddo.
Sulla balza del porto
si asciugano le strade, le case bianche.
I gatti dietro i vetri, nessuno
per strada, fuorché il mare.
A volte il dolore della febbre
sale, a volte il nulla arriva
come pioggia, è un nulla
vegetale, verde, vivo,
vicino al molo nel pieno del nord.
Il mare si crepa d’angustia,
non vale lo sforzo di ricucirlo.
Le maglie hanno ceduto.
*
Nessuno ha più di noi il desiderio
di tornare da quel mondo orizzontale
coperto dalle acque, e poi
sbattere i polsi sulle carene,
scorticarsi per sentire il sale
fino ai polmoni.
Acqua lustrale, varco e redenzione,
latitudine di tutti,
sacerdozio delle derive.
Galleggiano i foulard,
acqua madre, utero, espulsione,
esplodono in un canto le scogliere.
La morte è un’alba ritratta
nel calvo delle meduse.
*
Piedi scalzi sulla pietra,
sono esche di sangue per i pesci,
coaguli, veleni, a mani chiuse pregare
che non arrivi la corrente.
In fondo alla baia s’allunga il canale,
nella darsena è palude,
il segno dell’acqua sulle murate
è il confine.
*
Ti sporgi per annusarmi,
il suono si propaga lento,
trapassa lo sterno.
Nell’acqua non abbiamo odori,
siamo teste, corpi rigidi, detriti
di civiltà e sciame.
*
Non voglio essere uomo, voglio essere acqua,
oppure alga, curare
il mare, respirare, esalare
ossigeno, scoprire nel fondo le tane
di chi vive occulto o raramente,
per fuggire la rete, il ventre.
Vengo a trovarti, mare,
sono giorni difficili per le tue schiene,
cadono piogge inaspettate.
I vecchi dormono sulle loro ossa,
la corrente li porta in salvo,
nei larghi spazi della rada.