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Il brutale incantamento dell’infanzia: Génie la matta (a cura di Giulia Bocchio)


-Non ho avuto niente io
– Hai me

 

Da una parte c’è una maternità senza utero e senza capezzoli da succhiare, dall’altra una nascita frutto di un seme amaro.
Génie e Marie, madre e figlia, in un quel romanzo un po’ spossante, un po’ struggente e un po’ straordinario, il quel suo modo aspro e toccante, che è Génie la matta, di Inès Cagnati, nella nuova edizione Adelphi, contornata in copertina dall’Alberello nel tardo autunno di Schiele.
Metafora austera ma certamente riuscita. C’è qualcosa, nel rapporto assoluto e obbligato che lega le due, di strappato alla natura, all’agricoltura, al susseguirsi delle stagioni. Sentimenti e maggese, maiali sventrati e uno stupro, anzi, più di uno.
Marie, che è solo una bambina, nata da una violenza sessuale, nutre nei confronti della madre un attaccamento viscerale, che travalica e supera l’assioma per il quale deve essere sempre un genitore la figura pronta e responsabile. È Marie che partorisce Génie nella sua mente pura, è la sua sudata infanzia che dà vita a una madre alla quale tutto è stato tolto, poiché ripudiata dalla famiglia e poi respinta dalla stessa piccola comunità nella quale vive(eva).
È una giovane donna sola adesso, Génie, che deve badare a una bambina, la bastarda che le sta sempre fra i piedi. Lei ha da fare, si spacca la schiena nelle fattorie, nei campi, nei lavori domestici, nella semina, in cucina, tutto purché nella sua testa non ritorni l’immagine di quella violenza, di quella dignità strappata, di quel ventre invaso.
L’indifferenza è lacerante se è continua, se è praticata con pudore. Ma Marie è più forte di questo rapporto di sopportazione, non c’è risposta abbastanza brutale da farla scappare, come un cane alla porta, è lì che aspetta. Come nata per attendere lei, quella che ormai tutti chiamano la matta, la folle, la muta.
Non è matta, matta è solo l’aggettivo vile che le hanno dato gli altri, quelli incapaci di leggere il silenzio, ma che nello stesso tempo vorrebbero morbosamente penetrarlo.
Questo romanzo, apparso per la prima volta nel 1976, racconta una società real-rurale, nella quale  il pregiudizio ingloba ogni azione, ogni parola: Génie, e qualunque altra donna con un’esperienza simile alla sua, è come murata viva, pur percorrendo i sentieri di sempre, lavando i piatti di sempre, mangiando gli avanzi di sempre.
Non parla, Marie invece costruisce mondi per lei, le apre varchi nei quali sgorgano sogni, speranze, nuovi inizi. Inventerebbe una lingua nuova pur di conversare con sua madre. E invece l’unica frase alla quale può affezionarsi è un rimprovero vago e stanco, non starmi sempre fra i piedi.

Inès Cagnati


Cucciolo dalle zampe roventi, Marie, che sopporta il freddo meglio di qualsiasi solitudine: è indefettibile, è oltre il concetto di dna o appartenenza. Eppure, nel raccontare un legame apparentemente familiare, Inès Cagnati, scortica l’essenza sociale che regola gli ‘affetti’, ovvero meri rapporti di subordinazione ostinata e sterile. Il ruolo delle donne, e in particolare il rapporto fra madri e figlie, è come un coniglio spellato alla fine di questa vicenda umana: la nonna di Marie detesta non solo Génie, ma la stessa nipote: considerata una vergogna, uno scarto, la macchia fatale sul buon nome di una famiglia rispettabile.
Meglio cancellarla una discendenza così, inquina il sangue.
L’aspetto più sorprendente di questa narrazione è lo stile di Inès Cagnati: poetico, impalpabile, onirico, senza tempo, ricco di profezie personali.
Sembra un lungo canto, una leggenda lontana appartenente a terre ormai inabitate e leggere diventa un rito, una preghiera, sgranare il rosario, sfogliare il granturco.
La scelta di narrare la storia di Génie la matta, attraverso gli occhi dell’infanzia, restituisce un riflesso tagliente, un sorta di effetto specchio fra madre e figlia, Marie è il passato di Génie, Génie è il presente di Marie: il futuro è una stagione incerta, che sa di giorni troppo lontani, come quando si è piccoli e la percezione del tempo è dilatata, irreale, amplificata.
Uno specchio che si crepa e che si infrange, il loro.
Ma dinanzi a ogni pezzo, la sentenza è intercambiabile:
– Non ho avuto niente io
– Hai me.

A cura di Giulia Bocchio

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