
Non è facile spiegare cosa significhi per me questo autore immenso che ho amato e odiato, ci proverò partendo da lontano.
Era il febbraio del 2008, ero una studentessa del Dams di Bologna e iniziavo a scrivere di spettacoli teatrali su un blog dell’Università. Scettica sulla critica, propensa più a buttarmi in qualsiasi stanza o scantinato bolognese per seguire le sperimentazioni delle avanguardie teatrali, sempre più fine a se stesse e mai innovative (ma questo lo scoprirò più tardi).
Su consiglio di un mio professore entrai nella sala Leo De Berardinis dell’Arena del Sole per vedere uno spettacolo, Anna Karenina di Eimuntas Nekrošius, regista lituano acclamato dalla critica e dal pubblico. Ventinove scene, sette ore di spettacolo che mi lasciarono intontita, persa e con un unico pensiero fisso: dovevo rileggere Anna Karenina, letto male ai tempi del liceo.
La mattina dopo, passai in libreria e presi completamente a caso, l’edizione BUR del romanzo tradotta da Leone Ginzburg, con un’introduzione di Pietro Citati che saltai senza nemmeno leggere mezza parola. Lo spettacolo di Nekrošius era stato una piccola dose di qualcosa che non avevo mai provato prima e la volevo ancora e subito.
Passai una decina di giorni in una sorta di trance, continuavo la mia vita da studentessa universitaria: studiavo, andavo a lezione, vedevo amici, conoscevo persone, ma in realtà vivevo nelle immense sale da ballo, insieme a Stiva, Anna e Vronskij. Camminavo sotto i portici di Bologna pensando a quando sarei tornata nella mia stanzetta a leggere, sapevo il finale della storia, ma questo non importava, ero già preda dell’incantesimo di Tolstoj.
Finito Anna Karenina, iniziai subito Guerra e Pace, convinta di ritrovare lo stesso entusiasmo.
Ben presto mi accorsi che mi sbagliavo.
Più leggevo, più non riuscivo a capire la storia, perdersi in quel labirinto narrativo composto da innumerevoli strade senza uscita era frustrante, per non parlare delle parti in francese. Dov’era il tempo? Dov’era finita la trama? Tutti quegli incroci contrapposti mi iniziarono a dare un senso di nausea, leggere anche solo due righe era diventato uno sforzo disumano. Arrivai alla fine per sfinimento, obbligandomi a leggere un numero di pagine al giorno. Un incubo.
Non lessi più romanzi lunghi per diverso tempo, tornai con la coda tra le gambe ai miei noir e dopo un po’ cancellai ogni traccia di quel viaggio andato male con una dose di Dostoevskij, cadendo nel tranello di contrapporre i due maestri e schierandomi con tutta me stessa dalla parte di Fëdor.
Finii per provare disprezzo per Tolstoj, e addirittura mi ricredetti anche su Anna Karenina. Denigravo il Conte Malefico, con l’astio dell’amante tradita. Vedevo il suo disprezzo per la società, l’aura da santo profeta, da protettore degli ultimi anni, come comportamenti da mitomane.
Forse è stato l’amore immenso per Dostoevskij ad accecarmi così tanto oppure il trauma dell’obbligo di leggere Guerra e Pace, ma ci vollero anni per ricredermi. Ci è voluta una terapia costante con la letteratura post moderna per farmi riprendere. Si può dire che ho riscoperto Tolstoj grazie a Pynchon, Bolaño e Wallace. Grazie alle loro opere mastodontiche, labirinti psichedelici dove mi perdevo con la consapevolezza di accettare salti temporali, digressioni, trame non lineari. Abbandonarmi completamente al genio di questi autori, scoprire strade mai battute insieme a loro, mi ha fortificato, commosso, deluso e annoiato a volte, ma mai stancato.
Con questo nuovo spirito ho ripreso in mano Guerra e Pace, ho affrontato di nuovo il Conte Malefico, convinta a capirlo, sì, ma anche a lasciarlo al primo sentore di quella frustrazione che avevo provato la prima volta. Sì, è vero sono andata a cercare le traduzioni delle parti in francese, alcune parti eccessivamente storiche mi hanno annoiato, ma ho affrontato in maniera positiva tutti gli ostacoli. Per ogni strada senza via d’uscita ne ho scoperta un’altra sorprendente, le parti sconclusionate hanno trovato un loro senso e alla fine ho finito per amare e provare una tenerezza infinita per il vecchio Tolstoj, quello degli ultimi anni.
L’eremita scorbutico e un po’ pazzo, con la sua barba bianca lunga, già Santo, già monumento mondiale e oltre la realtà politica e sociale del mondo.
Ripudiò l’arte, ripudiò la politica e a ottantadue anni decise di fuggire e vivere da povero, come Cristo. Come un vagabondo salì su un treno con un’unica sacca, morì pochi giorni dopo, dentro alla sacca insieme ad altre poche cose, c’era una copia dei Fratelli Karamazov, del suo “gemello cattivo” Dostoevskij. L’asceta, il santo, il distaccato dalla realtà che aveva rinunciato a tutto, non riuscì a fare a meno della letteratura sentì il bisogno di confrontarsi con il suo “nemico” con l’uomo del sottosuolo.
Non fatevi spaventare dalla mole dei suoi romanzi, dalle digressioni eccessive, dalle infinite descrizioni, perdetevi, ritrovatemi e abbandonatevi al fascino di grandi opere, monumento dell’umanità.
A cura di Elena Cirioni
Elena Cirioni
“Nata nella metà degli anni 80 nella provincia del viterbese, durante l’adolescenza rimango folgorata dal teatro che mi porterà fino a Bologna nella aule del Dams. Dalle radio indipendenti bolognesi arrivo a Roma, dove lavoro per la tv. La scrittura e la lettura accompagnano da sempre la mia vita”
Una replica a “Rileggere Tolstoj: storia del mio amore e odio per il Conte Malefico (a cura di Elena Cirioni)”
Visionario, anarchico, un po’ pazzo, lo storico Barbero ne ha fatto un bel ritratto nel corso di una trasmissione su rai tre, pochi mesi fa. Ho iniziato la biografia di Citati, poco tempo fa, per ora l’ho accantonata ma credo di riprenderla in mano quest’inverno. I romanzi di Tolsto li ho letti tutti, mi sono piaciuti, e mi piace anche Dosto.
I russi, secondo me, vanno letti d’inverno, davanti al fuoco del camino.
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