
Immaginare la narrazione del mondo attraverso uno sguardo non umano rappresenta forse uno dei temi più stringenti del nostro tempo. Del resto, tutto ciò che si scosta dalla prospettiva antropocentrica rimane, ancora oggi, un campo sconosciuto al quale ci avviciniamo con una curiosità spesso colpevole di desiderio di addomesticamento delle “specie” diverse da noi.
Nel panorama degli autori che si pongono in un dialogo da pari a pari con il mondo circostante l’umano, nel respiro sincronico col mondo vegetale, nelle storie di territori e uomini e donne c’è sicuramente la voce di Luciano Cecchinel, autore trevigiano, considerato tra i maggiori esponenti della poesia italiana contemporanea.
Tra le sue produzioni la raccolta di poesie Al tràgol jért, in dialetto veneto, a cui hanno fatto seguito Senc (1990), Testamenti (1997), Lungo la traccia (2005), Le voci di Bardiaga (2008), Sanjut de stran (2011), In silenzioso affiorare (2015) e Da un tempo di profumi e gelo (2016).
Abbiamo incontrato Luciano Cecchinel alla vigilia del festival “Inesauribili Bisbigli”, una rassegna di musica d’autore e poesia organizzata dall’associazione culturale Artattiva, che si svolge proprio in questi giorni: dal 9 al 12 giugno nella Casa delle Fate di Goffredo Parise, a Salgareda.
Sabato 11 giugno sarà presente alla prima edizione del Festival Inesauribili Bisbigli, con uno spettacolo che prende il nome dalla sua opera Da sponda a sponda e che le vedrà affiancato il gruppo musicale “Le ombre di rosso”. Di cosa si tratta?
Si tratta di un’iniziativa che ha preso le mosse da Paolo Steffan, che stava compilando la tesi specialistica sui miei esiti di scrittura, e che, sua sponte, ”passò” cinque testi di quella raccolta a Fabio Fantuzzi, suo ex-compagno di liceo, il quale li musicò e li fece eseguire in pubblico al complesso che capitanava, appunto “Le ombre di rosso”. I riscontri furono positivi, per cui lo stesso Fantuzzi proseguì l’operazione con un altro lotto di testi, pervenendo alla pubblicazione complessiva in un bellissimo CD, che reca il nome della mia seconda raccolta italoamericana, appunto Da sponda a sponda.
Il festival si terrà nella Casa delle Fate di Salgareda, lì dove Goffredo Parise trascorse gli ultimi anni della sua vita. Una casetta rosa, sul greto del Piave. Qual è il suo rapporto con quel luogo?
Ci sono stato più volte, come spettatore di vari e sempre pregevoli eventi – ricordo al proposito la serata su Dino Campana che vide anche una performance di Roberto Vecchioni – e alcune anche come protagonista in relazione alla presentazione di qualche mio libro. Devo dire che ogni volta il pervenire a quel luogo mi dà, consentaneamente alla presenza in spirito del grande autore dei Sillabari, un senso di sospensione che ha dell’onirico, per cui la denominazione “Casa delle fate” per quel che mi riguarda assume piena cittadinanza… se poi penso che, fra tanti inconvenienti per chi la gestisce, periodicamente come per un arcano sortilegio viene sommersa dalla acque del fiume e ne riemerge… E ora essa mi attiva il mesto ricordo della grande persona di Enzo Lorenzon e di altri amici comuni mancati: Giampietro Botteon, Lucio Toniello, Irma Schweiger.
Andrea Zanzotto la definì “garante e creatore di lingua”. La lingua che caratterizza le sue opere ha una trama complessa che va dal Veneto di Revine Lago fino ai suoni angloamericani d’oltreoceano…
Secondo lei esistono dei temi che possono essere raccontati meglio con il dialetto? Premetto che nella scelta dell’uso del dialetto in poesia viene non di rado individuato il perseguimento di una maggiore possibilità di sperimentazione, in particolare la ricerca di sequenze fonico ritmiche nuove rispetto a itinerari già percorsi nell’uso della lingua italiana. E ciò è certamente vero ma non è stata certo questa per me la principale motivazione, perché, come mi corre spesso necessità di dire, per me c’è stata prima la scelta di riconsegnare a mio modo un mondo che si stava spegnendo e mi è venuto naturale farlo con la parlata che di quel mondo era propria, salvandolo innanzi tutto attraverso i suoi termini: il fatto che di quel mondo il dialetto fosse un connotato – e trattandosi di espressione verbale quale è quella della poesia, il significante essenziale, come per la pittura il colore, per la scultura la pietra o il legno – ne rendeva la scelta inderogabile. Per converso sarebbe per me stato improprio usare il dialetto per il resoconto delle mie esperienze d’oltreoceano. Come non avrei sentito vero parlare del mondo rurale senza usarne il dialetto, così non ho sentito vero usare il dialetto per Lungo la traccia e Da sponda a sponda. In questo libro io seguo la vicenda del mio nonno materno e con lui finisco, in una specie di sovrapposizione conclusiva, per identificarmi. Ora, mio nonno Ildebrando Guglielmo Maldotti era di San Pietro in Cerro, vicino a Piacenza, e non aveva mai appreso il dialetto veneto: per comunicare in terra veneta usava l’italiano e in emiliano ho potuto sentirlo solo imprecare. Usava poi l’italiano come aveva fatto in America con gli altri italiani immigrati di altre estrazioni regionali: come la terra di nessuno che si suole situare tra una demarcazione statale e un’altra, una specie di lingua di nessuno ma in quanto tale anche di tutti. Nella piccola comunità italica di Cambridge/Byesville Ohio accanto al nucleo emiliano-veneto della mia famiglia materna c’erano una famiglia marchigiana, una ligure, una calabrese: erano cinque i dialetti parlati e era inevitabile, prima di apprendere l’inglese e poi anche oltre il poco inglese inizialmente rimediato, usare l’italiano e il gergo italoamericano di prima assunzione. In considerazione di tutto ciò, il dialetto in questo mio libro compare solo eccezionalmente, “vocato”, da una reale situazione esistenziale, quella di una mia prozia che nell’agonia prese a delirare in dialetto.
Era appunto l’italiano in quel contesto del Midwest a diventare, con qualche ibrido di slang, la lingua di tutti e di nessuno. In Perché ancora poi mi sono scaturiti in dialetto – presa d’atto a posteriori – solo i monologhi in prima persona, fosse essa singolare o plurale… chissà, forse per una forma più forte di identificazione.
Per Le voci di Bardiaga, composizione totalmente in lingua, è stata decisiva la commisurazione con l’epos della letteratura classica, da Omero a Virgilio – ma, volendo, anche da Simonide di Ceo – e infine con la tradizione ottocentesca che ha inevitabilmente a che vedere anche con i modi con cui quella tradizione è stata resa nella traduzioni in italiano. Il procedimento della parte finale di quel libro è stato quello di sottomettere una forma normalmente usata per cantare la morte illustre e, nella fattispecie, anche il culto della bella morte di matrice nazista e fascista (fra i giustiziati c’erano nazisti, fascisti e presumibili collaborazionisti), al significare la morte infame, e infame in senso letterale, dato che le spoglie erano celate nel fondo di una spelonca situata in un luogo impervio per erta e infestamento vegetale. Per questo vi vigeva, voluto prima che inevitabile, il pendant con I Sepolcri foscoliani, che finalisticamente allignano sul valore delle tombe ‘personalizzate’ in ossequio alle vite illustri
Utilizzare il dialetto vuol dire anche, implicitamente, rivolgersi a un mondo più piccolo, raccolto. Nel suo caso il Veneto. Cosa rappresenta per lei questa scelta?
È vero. La mia prima raccolta ha rappresentato una specie di sprofondamento nel mio mondo “paesano”, anche se è da dire che la civiltà silvo-pastorale che, seppur ormai un po’ rarefatta, vi viveva, era analoga a quella di molte parti della nostra regione e, altresì, della nostra nazione, per cui il “paese” era ancora per molteplici aspetti il “mondo”. Il termine “raccolto” poi, esemplarmente usato nella domanda, porta a un senso di intimità comunitaria e personale, laddove le due dimensioni potevano avere vigore in piena dinamica. Da una parte il senso di un’identità collettiva pressoché generalmente sentita, dall’altro il poter ravvivare i ricordi personali in un contesto che non li contraddiceva. Allora il fenomeno poteva verificarsi senza particolari usure interiori e questo era perfettamente omogeneo al tentativo poetico: vien qui di ricordare che Pavese ha detto che la poesia è in qualche modo sempre un “saccheggio dell’infanzia”. Le cose hanno cominciato a cambiare con la cesura economico-culturale che, determinatasi dalle nostre parti a partire dai secondi anni ’60, ha portato progressivamente a una divaricazione anche drammatica fra humus interiore e realtà esteriore, per cui nel sentire diffuso e naturalmente anche nell’espressione poetica si è innescata un’inevitabile lacerazione, con inevitabili sensi di spaesamento e disagio, che ingeneravano anche reazioni di natura recriminatoria e polemica.
Tornando al confronto fra possibilità della lingua italiana e del codice dialettale, iniziato con la risposta alla domanda precedente, la mia linea di verifica/discrimine è che certe cose riesco a pensarle solo in italiano, certe altre sia in italiano sia in dialetto, altre ancora meglio in dialetto che in italiano.
Per me risulta alfine meno innaturale sentire l’italiano come lingua del cambiamento e quindi della possibile sperimentazione. È lingua nazionale e, nel regime di policentrismo dialettale della nostra penisola, è, per riprendere un’espressione prima usata, lingua di tutti e di nessuno. In ragione di tutto ciò mi è più facile assumere la lingua nazionale, quale luogo della koinè, anche di eventuali sperimentalismi. Va detto al proposito che l’ingredire nel suo contesto dei termini della modernità risulta molto meno distonico che nel dialetto, dove ingenera spesso frizioni da scintille, seppur certo lessico della tecnologia vi è divenuto di uso abbastanza comune.
Per quanto concerne la fattispecie del dialetto in poesia c’è stata poi da parte mia la volontà di essere fedele all’«autentico antico» e in questo assunto di fedeltà mi sono presto reso conto che a soccombere del dialetto nel tempo sono prima le costruzioni che i singoli vocaboli, cosa di cui ci si capacita non appena si ascolta una registrazione in dialetto d’antan. E se poi in poesia si sottomette il linguaggio alle pastoie della prosodia, quella stessa volontà mi ha indotto a limitare al massimo la violenza della metrica e della rima sulla lingua del parlato.
Nella sua poesia, in quel gioco di rimandi tra civiltà industriale e civiltà contadina, si possono intuire le tracce della crisi del paesaggio. Qual è il dramma del paesaggio ai nostri giorni?
Il nostro paesaggio, per privilegio del destino anche assai suggestivo, è per tutti noi nella sua dolcezza collegato, vien di dire in modo ombelicale, al primo sentire dell’infanzia, periodo della vita in cui si imprimono nella mente le rappresentazioni più edeniche, alle quali essa tende naturalmente, in linea con la citata frase di Pavese. Vien da chiedersi se i sensi del bello e della dolcezza che dal paesaggio emanano abbiano oggi ancora il conveniente valore. È un fatto che essi presuppongono una propensione alla contemplazione e quindi uno stato di quiete che è di questo tempi difficile conseguire pienamente tra i tanti stimoli che assediano la nostra vita. E a ogni modo se arriviamo ancora a attingere una condizione funzionale alla contemplazione, la avvertiamo come “stato di grazia” e quindi fuori dell’ordinario e non invece, come un tempo in piena immersione era, “naturalmente”, in una intrinseca essenza di pace, pur attraverso tante ambasce, fatiche e sofferenze, che col senno dell’attuale “poi” sembrano configurarsi come delle impietose condizioni della bellezza. Certo oggi si ha il senso grato di fruirne in chiave di “consumo”, fra i tanti altri della nostra tanto ritmata esistenza: ma se questa sensazione è anche un po’ amara, la sua fruizione è essenziale, quasi un residuale sortilegio, per una rivitalizzazione interiore. Se, come diceva Zanzotto, noi siamo in fondo il paesaggio che vediamo, la dolcezza paesaggistica ci riassetta in relazione alla corrosione determinata dai molti paesaggi compromessi, anche dal punto di vista etico. In un’intervista che gli feci per «Autografo» il grande poeta dichiarò: «Noi siamo infatti, anche se gli effetti sono spesso frenati e inavvertiti, ciò che vediamo e viviamo e quindi ogni deturpamento paesaggistico diviene inevitabilmente anche disorientamento personale. E su questo alligna anche certa degenerazione umana dei nostri giorni.»
Oggi nella poesia, ma più in generale in tutta l’arte, è presente una forte sensibilità sul tema ambientale. Quando si è avvertita l’esigenza di raccontare questo tema?
Sì, è anche e, forse soprattutto, nel mondo dell’arte che si sente in modo prorompente il tema ambientale di fronte al proliferare negli ultimi decenni di nuove e vistose costruzioni e di monocolture con alti tassi di inquinamento, a volte evidentemente determinate da mire di guadagno più che da vera necessità. Così è diventato un dovere di coscienza farsi portavoce dell’ambiente che, non avendo voce propria al di là almeno della propria bellezza e nemmeno poi molti fautori, diventa spesso soggetto minoritario nelle decisioni delle nostre comunità. È amaro al proposito rilevare da statistiche ufficiali che in provincia di Treviso il coperto industriale dal 1992 al 2002 è raddoppiato e questo in presenza di un abbondante ricorso a manodopera di provenienza esterna. Non si può non ammettere che il fattore territorio è stato sovrastato da tendenze al di fuori di condizioni di sana economia. E il tutto in pieno esercizio democratico e per di più con petizioni di base virulente e tanto più paradossali quando ci veniva continuamente ribadito che il nord-est era una delle aree a reddito pro-capite fra i più alti a livello europeo. Certo i pronunciamenti degli enti a tutela del paesaggio dovrebbero avere maggior vigore, perché almeno il loro punto di vista abbia una forza costante e non funzionale ai mutamenti politici. A questo fine questi enti dovrebbero essere di non facile accessibilità, come era in fondo, e non per tutte nobili ragioni, la vecchia Soprintendenza ai Monumenti, cui era stata delegata la tutela del paesaggio.
Tutto ciò fa riflettere sui limiti dello scaturire “democratico”. La democrazia ha una sua sacralità se difesa di fronte al pericolo del suo venir meno ma non certo attraverso la santificazione geometrica di tutti i suoi portati. Essa può essere nobilitata ove si ammetta, con un senso di umiltà oggi poco rintracciabile, il senso dei livelli di competenza: in certe cose bisognerebbe saper accettare i pareri degli esperti del paesaggio – di fronte ai quali anch’io, a suo tempo, ho talvolta a torto recalcitrato – o i pronunciamenti di enti tutori costituiti da esperti, non perché assolutizzino il loro modo di vedere, ma perché almeno esso vada in dinamica con una forza costante e non per mutazioni funzionali ai periodi politici. Questo perché il paesaggio non rimanda, come già detto e come spesso è stato, “soggetto democraticamente minoritario”. Per quanto poi – se mi è lecito esprimere oltrepassati i settant’anni questa che non è una riflessione ma un’amara considerazione – gli esperti che valutano il territorio siano soprattutto architetti e ingegneri, cioè le stesse persone deputate a farvi costruire sopra: un conflitto di interessi “in nuce”, insomma. E è purtroppo sconfortante dover talvolta constatare che esperti inflessibili nel rispetto del paesaggio in una certa aura politica sono divenuti in un’altra aura i protagonisti di varianti degli strumenti urbanistici che clamorosamente smentivano le loro posizioni precedenti e con esse metà della loro esistenza.
È possibile, secondo lei, raccontare letterariamente il mondo in una prospettiva non umana? Ponendo, cioè, l’uomo non al centro della narrazione?
Io non sono un critico – non ne ho né l’acume né uno statuto – e non saprei rispondere convintamente secondo una considerazione complessiva della tradizione letteraria. Ne dirò pertanto per quanto mi pertiene, riferendomi a una mia fase di scrittura. Dopo un’ulcerante esperienza politico-amministrativa e alla crisi interiore che ne era conseguita ero stato preso da un tale senso di rifiuto per il recente passato da rifiutare anche me stesso che ne ero stato in mia misura attore. Ecco, nella scrittura avevo cercato di annullare quello che chiamerei l’«io egotico» in un «io collettivo». E all’io egotico è senza dubbio legata in prima istanza l’espressione di tenore lirico, in chiave di più o meno marcato narcisismo. Lo sbocco, a giudicare dalle analisi dei critici, è stato verso una forma di epos e l’epica è sempre innanzi tutto la voce di una comunità… nella fattispecie un’epica povera, dei poveri.
Ma alla fine la mia operazione non ha avuto un esito totale: un margine di lirismo è rimasto.
La faccenda può alfine essere di converso sintetizzata in una domanda: può darsi poesia senza narcisismo? Verosimilmente no. Nel caso l’alternativa sarebbe stata quella di un mero trattato antropologico.
A cura di Giuseppina Borghese