
I
Eravamo a brandelli negli occhi dei grandi
scartati dalle loro fitte mani. I loro anni
una vertigine ogni tanto che allentava
la magia e la paura si faceva spesso
tremore.
Ma a noi, coi nostri fianchi
sembrava di poter entrare dalla serratura
e questo bastava – origliare le messe
distinguere i trambusti e le violenze
non è cosa da bravi e i curiosi sono sempre
puniti nelle storie dei padri –
Dov’erano gli spiriti minuti che sorvegliano
gli angoli dei corridoi dai bordi
delle mensole, dalla punta delle spighe
noi lo sapevamo. Nessuno ci credeva
(qualche poco di buono
che prendeva una strada più corta
lo aveva capito, ma troppo tardi
– per tutto il giorno poi se ne stava
a osservare i passanti
nascosto tra le lumache)
Sapevamo anche che se resti
è perché non sai di essere morto.
Ci vuole una strega che sappia parlarti
lanciando una mano di terra
a indicarti l’istante del salto. Altre volte
devi scappare perché neanche dopo
i vivi ti lasciano in pace.
C’era una strega antica
nella porta sotto le scale
pioveva nei giardini delle gatte gravide
per coprirle dall’invidia delle altre.
Faceva i tarocchi alle donne e benediva
le scarpe degli uomini
‘ché non perdessero la strada.
Mi chiesi se quella fossi tu
me ne compiacqui, le tue mani
raccoglievano per chi non sapeva
tutto il fuoco e tutta l’acqua.
Una volta sposata capii
che le streghe chiudono ogni porta
per piantarsi nella vita di un uomo.
Il passo è un occhio che fruga la porta d’uscita
come il primo furto impallidisce
le mani, un’ape un fiore
serrato, ma i capelli
come il biasimo dei figli
non imbiancano mai
e un’altra vita si spiega
bruciata la strega resta la scopa
le erbe secche
il gatto.
II
Una retta lancia il braccio dal bordo
della fontana, quasi morbido
sotto la pancia bambina, poi
un bastone nel palmo e i bateaux
dei jardins des Tuileries a sloggiare
dall’ombra le oche, sciolte
nel volo delle cose
che in accordo imprescindibile
comprimono il ricordo nello spazio.
Là tu sei il giglio a steli chiusi di burrasca
ogni linea oltre la svolta dell’intero
prima nasce e sfiora, poi muore
e ribadisce una natura di tangente, inutile
sul bordo di qualsiasi fontana possa
tirarmi, sasso nello specchio
e non sapere altro che un’oca assolata.
Ci sono maree che aspettano in segreto
svernano tra la barba dei viandanti
come uno spessore d’impronta. Ci sono
maree che non tornano alla sabbia
sbiadisce l’inverno piuttosto.
Qui si spintona la storia, l’angolo
in cui i sassi prendono casa, qui
scavare è un gesto che trema
ma non restituisce.
III
Febbraio non ci offrì alcun riposo, potevamo al massimo rallentare e inserire una marcia d’attesa ma nel traffico una manciata di sole faceva bollire i pensieri a fuoco lentissimo. Ci siamo raccontati che nulla si sarebbe fermato, mordevamo in un tubero l’illusione della povertà. Questo ci diede così un moto, una polpa nelle gambe che si disperse in fatica.
Eppure, tutto era cambiato.
Mia sorella sotto il sole o nella cuna
a forma di mia madre non ha mai
mostrato disperazione. Mio padre
da quando ha mangiato, bambino
la sua ultima pesca
non mostra disperazione.
Eppure, tutto è cambiato come un soffio
d’inverno che raggeli in un’estate intera
uno schiocco di palpebre.
Ho fatto a pezzi la mia disperazione
– qualche macchia nel marmo ancora
impallidisce – l’ho levigata
e fatta entrare a forza come un letargo
come un atto d’amore fa crescere
un figlio chiuso nella madre
senza mai venire al mondo.
Davide Gallo
Davide Gallo,classe 1996, è laureato in Lettere Moderne.
Vive attualmente a Bologna per completare il corso di Italianistica ed è socio attivo del Centro di Poesia Contemporanea dell’UniBo, all’interno del quale organizza – insieme agli altri membri – seminari dedicati alla poesia.