Brindare con le acque nere: Giulia Bocchio introduce ‘Scurau’ di Giuseppe Nibali

Scurau, di Giuseppe Nibali Illustrazioni di Ilaria Mai, postfazione di Tommaso di Dio

 

Cosa chiediamo oggi alla poesia? Cosa dovrebbe evocare, cosa dovrebbe spiegarci?
Nulla. Sono domande da svecchiare, visti i tempi. Dovremmo piuttosto chiederci: cosa vedi quando leggi? Un libro, una raccolta, un racconto funzionano quando le parole si sciolgono e si diramano, dense, in un loro personale labirinto. C’è un’uscita, ce lo racconta il mito, se lo augura il nostro animo.
Scurau (Arcipelago Itaca) di Giuseppe Nibali è più o meno questo, un mattatoio a forma di labirinto.
Le pagine scorrono insieme al sangue, alla merda, a ciò resta di ossami sconosciuti. Sembra l’apocalisse e forse è il presente, oppure un incubo, o forse è ciò che è già successo, non è dato sapere, non è sempre necessario sapere se si è in grado di evocare. Antropocene e Predazione confluiscono insieme, sono acque nere che Giuseppe Nibali ti concede di bere, è così che la sua scrittura brinda con quel che resta di te e del mondo, ma il mondo è vasto, impossibile circomprenderlo tutto, anche con le parole. Ecco perché ritorna il labirinto. Un sorso di piscio e la ricerca di un’uscita – di un varco – continua.
Cominciate da qui…

 

ANTROPOCENE

Ultima voce chiama il sangue.
Campo cruento gli uomini, altro sangue per le donne:
è il giorno. Tutti sono convocati, vecchi e nuovi
viventi aspettano un gesto per sbranarsi. Il rivolo
aspettano, verticale sullo sterno, il morituri stabilito
dalla nascita, nella nascita futura rivelato. È tempo
adesso per il sesso tra gli attori, gambe nude, lividi
dai piedi fino all’ano serpi, piaghe fili lo sfondo fuori
anche case, molte, come in cerca vergognosa della luce.
Altro mai, nemmeno nella voce, nella voce ultima

 

due mesi, niente. La città è andata avanti
verso il mondo universo. Vi colpisce fino
ai buchi dentro i nervi fino ai chiodi tra le
costole. La città ha dato germe. Resistete.
Non muovete il braccio: respirate, restate
come gli uomini che sono uomini due volte
una per l’origine l’altra per il tempo.

 

Il vostro corpo umano, il tutto vostro corpo è carne di vipera (in
cumuli, i vecchi uomini, labiali pronunciavano, labiali, sibilanti).

 

Corpi cavi enormi, gonne e questi figli come squarcio.
Crolla la religione, Meroè, di chi conosce il tormento
di giocare fino al buco dell’abisso; lo sgravo che ricordi:
spruzzi di merda sul lenzuolo e dentro l’amigdala
appena lavati macelli, vene scure. Osiamo dire:
Cattedrale vuota l’ulivo schiacciato contro il greto
i rami le foglie lo schianto lo scantu della scorza
materna sul petto. Matriarcato dei giochi l’ikea
i segni, questi, del nuovo potere; parola della madre.
Sì, siamo la madre. La morte la morte. La morte.

 

La pastorella delle sfingi, Leonor Fini

 

PREDAZIONE

Lentissimo nella notte, la voce annuncia: verso lei
nel buio, poi lancia la caccia. Glutei tesi, la coda
qualcosa d’elettrico gli occhi. Mentre continuamente a fuoco
cerca la macchina nel nero il muggito, che arrivi preciso
che l’operatore non lo perda. Verso lei, tra l’erba
lo gnu viene graffiato cinque volte in una presa
nel lancio velenoso di muscoli e tendini. È perso,
soffocato dalla leonessa con i canini nella glottide.
Non è stanca ma triste la femmina, un’adulta e per un tempo
prima e dopo la predazione carezza col muso il muso della morta.
Finalmente, dice la voce, mentre verso lei ne arrivano affamati
altri due

 

carcasse, visi morti: si agita luce nei cavi,
un màglio sfronda il consorzio umano e
ne nascono. Ne muoiono.

 

La placenta respinge i colori più antichi, altri
piovono sulla terra chimica: una piccola duna cede;
un altro grumo è caduto, bambina: non è il Male,
solo andiamo verso il tempo dal tempo. Tua pelle,
forse del viso quella che guardi stesa sul corpo,
tua pelle forse del dorso, e così scopri in petto
una gabbia in polimeri ciano e oro, un cuore
in poliuretano. Non gridare. I seritteri filano maglie
di sangue coagulato, coprono il cratere deserto
del ventre, suturano la struttura

 

nel notturno si muove il tessuto della terra,
le case, i resti d’osso, ombre nell’ombra una
sull’altra e alla via nuove bambine imparano
il dolore: sul porto, dentro la ritirata del treno,
Gheta ha sfiorato la scritta sul muro: se hai
paura urla e grida sempre nel seguire
la serpentina di cemento per le cave.

 

Nessun terremoto è arrivato, ma le case, i resti d’osso, i bambini a
stracci sul pallone. Così anche Europa segue le mandrie verso est;
una nuova madre, la sua mano che indaga cieca la fronte della
figlia; poi la stessa figlia, quasi morta, la sua carne, quando lo
sguardo sarà uno specchio, gli occhi di là dal dentro. Come da un
altro fondo. Muti

 

fanno spavento le cose del mondo e si dovrebbero lasciare:
un figlio chiede al padre dell’auto crollata nel vallone.
Si dovrebbero lasciare, mentre insieme guardano la televisione
dal divano. Lei lunga distesa, il suo collo e ciò che precipita
insieme a noi e alla Terra e si fa freddo mistero.

 

In futuro poi il lampadario di carni e scheletro, faranno
come fossero statue di rettile nel diorama. Diranno si amavano,
guarda, lei ancora tiene la testa poggiata sulla spalla.
Non hanno sentito nulla dal globo durante il lungo crollo
(mesi, anni), è stato come spegnere tutto, un velo, un tuono.
Entrarci ancora vivi, dentro il nero

(…)

I testi qui proposti sono liberamente tratti dalla raccolta ‘Scurau’, per una lettura completa dell’opera : https://arcipelagoitaca.it/collections/libri-in-uscita/products/scurau-di-giuseppe-nibali


Giuseppe Nibali è nato a Catania nel 1991. Si è laureato in Lettere Moderne e in Italianistica a Bologna dove è stato membro del Consiglio Direttivo del Centro di Poesia Contemporanea dell’Università. Giornalista Pubblicista, è direttore responsabile di ”Poesia del nostro tempo” e curatore del progetto Ultima. Collabora con ”Le Parole e le cose”, ”La Balena bianca” e con il magazine ”Treccani”.
Ha pubblicato i libri di poesia: Come dio su tre croci (Edizioni AE 2013) e La voce di Cassandra – Studi sul corpo di una vergine.

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