
Quando ho aperto la portiera dello scompartimento ho percepito che avessi un odore forte. E non mi è dispiaciuto. Vista la tua divisa, ho pensato che ti stessi portando in spalla una giornata lunga fatta di strade polverose, osterie piene di fumi e un poco di morte. Lo stesso io. Non mi scoraggio se ricevo sguardi insistenti, d’altra parte so di essere considerata insolita per lo spazio che oso occupare in questo mondo. Non li assecondo tutti, tuttavia il tuo ho scelto di sì. Per questo mi sono seduta accanto a te, nonostante altri posti fossero liberi.
Non ero sicura di piacerti. Non solo per il mio corpo non conforme o per l’abbigliamento imposto che mi confina a questo semplice ruolo di vedova, così distante dalla complessità di un essere umano. Non ero sicura che mi trovassi attraente per i pensieri putrefatti che affollano la mia mente e che temo siano leggibili. Come quello di mio marito. È morto nel sonno, eppure il suo decesso ha la qualità della dipartita violenta, che richiama immediatamente il sangue e le lacrime salate, alla maniera di un ultimo disperato tributo alla vita. Quando mi sono seduta accanto a te eri in preda all’agitazione. Non volevo osservarti, ho preferito ascoltare attentamente il rumore del tuo imbarazzo: i palmi sudati che strusciano freneticamente sul tessuto rigido dell’uniforme, il medio che gratta la nuca appena sotto al cappello, il respiro accelerato. Poi una breve calma, e la tua mano che mi accarezza il fianco. Che non si intimidisce agli sguardi degli altri passeggeri. Lo stesso non mi impaccio io, anzi: la donna con la nipote, il calvo, l’uomo col sigaro e il loro profumo di casa, di cuoio, di unguenti odorosi, di cibi conservati a lungo e un sottofondo deciso. Il tuo.
Tutto e tutti parte di una scenografia elaborata e scabrosa. Mi unisco alla recita, e passo il fazzoletto immacolato sulle tempie, stando attenta a non sciupare i veli che guarniscono il cappello. Per un secondo ci immagino come un quadro appannaggio degli alberi che dall’esterno ci spiano dal finestrino, e penso a quanto appariamo grotteschi, ciascuno nei nostri bianchi e neri.
“Anche mia sorella è rimasta vedova da giovane”, la signora che mi siede accanto attacca bottone con il dirimpetto. Si mostra addolorata e si lascia andare a un pianto di pietà, tutto dedicato a me. Eppure con me non parla, con me non si parla. Come se fossi morta anch’io. Ma sono viva. E mi sento più attaccata che mai a questo mondo mentre la tua mano si spinge dal fianco al mio ginocchio. Alle ultime stazioni del percorso provinciale, gli altri passeggeri dello scompartimento calano le valigie, s’avviano alle porte e noi restiamo soli. Sono interdetta. Non dal silenzio, piuttosto dalla tua figura: sembri improvvisamente cambiato, nemmeno io so perché. Ti alzi privo di remore e meticolosamente sciogli le tendine, le tiri e le riallacci verso il corridoio, come fa chi vuol dormire. Tu vuoi dormire? Mi fa paura la voglia che ho di scoprirlo. E combatto per chiudere questo terzo occhio collettivo che mi giudica con le sue regole, riducendomi a un ruolo e una qualità col quale mi devo costantemente confrontare. Chissà tu con cosa lotti. Ti invito a sottrarci da ogni visione astratta, e lo faccio con un movimento tanto semplice, eppure capace di far tremare il mondo. I tuoi occhi sembrano persi in un punto non definito quando ti volti e mi trovi sdraiata sulla seduta. Poi ti fai coraggio, e ti avvicini. Non riesco a trattenere l’emozione vedendoti inginocchiato. Mi porto una mano stretta a pugno alle labbra. Stringo tanto forte da sbiancarmi le nocche nel tentativo di dominarmi. Non posso parlare, non mi fido della mia voce, perciò poggio il pugno ancora chiuso sul tuo capo chino, spingendo solo un po’. Allargo il palmo sui capelli, accarezzandoti. Tu allora sollevi le braccia e mi cingi le gambe poggiando la guancia sul mio ventre. Sono sciocche le parole quando c’è tanto da dire.
Percorro lentamente con lo sguardo il tuo corpo piegato un’ultima volta prima di alzarmi facendo leva sul sedile imbottito. Fingo di spolverarmi il vestito e mi fermo di fronte a te che intanto hai occupato il mio posto sedendo composto. Ti sfioro il ginocchio col mio. Spingo con la scarpa contro i tuoi stivali per farti divaricare le gambe e avanzo, guardandoti. Il corpo decide più in fretta di me, in questo spazio tutto nostro mi sento invitata ad assecondarlo. Sollevo l’oscura gonna stretta fino ai fianchi e mi metto a cavalcioni sulle tue gambe, con entrambe le mani percorro il busto fino a incorniciarti il viso tra le mani. Sento il fallo teso attraverso i pantaloni appoggiare contro il mio ventre, mi muovo appena e subito si insinua tra le mie natiche, ancora fasciate dall’intimo. Un brivido mi percorre involontariamente la schiena, ti sento fremere e spingere il bacino cercando il più possibile il contatto. Il tentativo di reprimere un lamento fallisce con un gemito liberatorio; il petto si alza e abbassa freneticamente mentre il cuore batte come un tamburo.
Ti sfioro l’orecchio con le labbra mentre sbottono i tuoi pantaloni. Vorrei dirtelo, ma non ho fiato. Quindi sospiro e struscio i fianchi contro di te. Ignoro la moltitudine di mormorii che rivelano la presenza di un gruppo di fumatori a riempire il corridoio. Non sono sicura che farai lo stesso, così ti tappo la bocca con una mano, stringendo contro le guance. Oh madre, quanto sei nervoso! Tengo un solo istante le palpebre abbassate perché un ricordo mi assale, troppo vivido. Sollevo il mento nella tua direzione e poi il capo, ancora impeccabilmente ornato dal cappello, verso la porta, e sorrido. Hai un sussulto impercettibile, mi si stringe la gola a vederti così. Ogni grammo degli abiti che porto addosso è una tortura al pari di un ferro incandescente. Resto immobile per impormi la calma, inspiro a fondo. Poi ti libero dalla presa e ti restituisco il diritto di comunicare.
Stavolta, tuttavia, non è con la voce che decidi di farlo. Inarchi appena la schiena quando il peso del mio corpo fa pressione sul tuo petto, volti il capo verso la mia mano, dischiudi le labbra per baciarmi il polso. Rigiri il viso per guardarmi di nuovo, poi ti impossessi della mia bocca. Sei delicato, ma impaziente, come ormai lo sono io.
Dalla prigione delle mie gambe aperte, inizi a strattonare cintura e bottoni. Tengo gli occhi ben aperti e pronti a registrare ogni dettaglio di questo presente che mi appartiene, del tutto insinuato dentro di me. Gemo sulle tue labbra dischiuse, mentre prendiamo quello che vogliamo darci. Del fazzoletto immacolato, che solo poche ore fa aveva fatto da elegante ornamento di scena, ora non resta che un cencio spiegazzato e umido. La pelle del sedile conserva una traccia madida. L’aria seminale punge le narici. Questi sono gli indizi che lasciamo del nostro incontro. Mentre noi siamo rientrati ligi nelle nostre divise. E protetta dall’armatura oscura, riesco a dirti una parola. Quando esco dallo scompartimento non mi guardo indietro. Supero la porta e la richiudo alle mie spalle, mi appoggio con la schiena al legno scivolando appena su di esso. Una moltitudine di passeggeri osservano prima me, e poi te.
Sapevo che mi avresti seguita, incapace di poter prendere una direzione diversa. Le gambe a fatica mi sostengono, appesantite dal timore di scoprire che possa essere stato un sogno.
Ma non sono immaginaria, e non lo sei neppure tu.
Chi è:
Melania Mieli è lo pseudonimo di una blogger e scrittrice italiana nata nel 1983. Il suo sito, www.melaniamieli.com, è uno spazio di confronto con artiste e artisti indipendenti, dove sono approfondite tematiche inerenti alla letteratura contemporanea, alla sessualità e ai femminismi. Esordisce nel 2015 con Il Tredicesimo Periodo pubblicato da Lettere Animate. A Novembre 2018 ha partecipato al progetto Le parole sono importanti, antologia “di resilienza semantica” curata da Dots Edizioni. Dal 2015 al 2016 ha raccontato sul web le vicende dei dipendenti della Firm, e da tale esperienza è nato nel 2019 Il Piano dei Conti, (Inknot Edizioni). Nel 2020 ha pubblicato il suo terzo romanzo, Il punto di rugiada (Nulla Die).