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The Chair

La prima domanda che mi sono posta prima di guardare The Chair (in inglese la “sedia” su cui siede il direttore, e per metonimia il direttore stesso) era se Sandra Oh avesse la bravura di farmi mentalmente uscire dalla sua identificazione con Christina Yang, identificazione che, per i tanti anni e la cesellatura di quel personaggio, assomigliava a un’aderenza. Se c’è qualcosa di certo in questo dramedy di tanta carne a fuoco e pochi difetti, ebbene è l’incredibile talento di Sandra Oh nell’essere totalmente ciò che sta essendo in quell’istante: una capacità che appartiene ai movimenti delle mani come alle punte delle sopracciglia e che non è per nulla scontato quando si è stato il vero colosso di un drama durato, nel suo caso, dieci anni. Dunque a una Sandra Oh che ha smesso di essere Christina Yang al primo ingresso in scena viene data “the Chair”, la direzione del dipartimento di anglistica di una prestigiosa e fantomatica università. È giovane, è donna, quindi deve esserci un motivo: difatti la speranza sottesa di tutti è che sbrogli una matassa che non potrà che portare al siluramento. I costi del dipartimento vanno rivisti. Insegnanti a dir poco analogici, dinosauri dell’insegnamento, menti eccelse del tutto scollegate con tutto ciò che significhi insegnare, hanno attorno ai sette allievi per corso, eppure prendono stipendi altissimi. Donne brillanti, di colore, giovani, catturano centinaia di studenti, ma sono costrette a distribuire fotocopie a lezione per salvare la faccia dei loro mentori che parlano al posto loro. Ji-Yoon Kim, prima direttrice non bianca dell’ateneo (“è per questo che me ne vado”, le dirà la brillante docente quando lei le offrirà con la stessa motivazione una cattedra) deve barcamenarsi in questo sistema di potere dove a una altrettanto analogica professoressa viene assegnato, oltre al doppio del lavoro per la metà dello stipendio, l’ufficio nello scantinato.
La questione del gap di genere in ambito lavorativo e accademico viene affrontato con una voglia spudorata di mettere in fila i fatti e un’apparente leggerezza che permette all’imbarazzo di andare più a fondo. E a questo viene affiancata la riflessione sull’appartenenza etnica, non soltanto dal punto di vista delle reali possibilità di un non bianco di raggiungere vette di successo con lo stesso lavoro di un bianco, ma anche con la fragilità con cui gli studi etnici e di genere possano essere i primi a essere messi da parte a favore di un granitico sapere condiviso.
In una serie che ha davvero poco tempo per farlo, molto è problematizzato e lo è fatto in maniera ben stratificata. Se Ji-Yoon non porta a casa il lavoro, è la casa a portarle il lavoro addosso. Ha una bellissima, pestifera bambina ispanica che si sente del tutto americana, cui la scuola dà il ruolo di ambasciatrice del Día de los Muertos, e che è spesso tenuta dal nonno, coreano di ferro che lamenta problemi di comunicazione dal momento che la bambina non parla coreano e lui parla inglese ma non vuole farlo. Ju-Ju inoltre respinge la madre, non trova con lei una connessione. E la comunità coreana si chiede tuttora come lei abbia potuto adottare senza un marito.
The Chair regge tutti questi conflitti – etnici, anagrafici, di genere – in circa 180 minuti e lo fa egregiamente, mantenendo saldo il personaggio di Ji-Yoon e senza sbrodolare in un telefonato romanticismo, come avrebbe potuto essere quello con il collega Bill, ex direttore del dipartimento, “giacca sportiva, barba di un giorno”, vedovo di mezza età senza punti di riferimento e in costante ritardo alle lezioni. Ed è proprio lui, empatico ma sregolato, a fare l’errore che più metterà alla prova Ji-Yoon: un saluto nazista in classe prontamente ripreso dai telefoni dei suoi allievi. Quella che per lui è un’irrisione, è un’offesa per i capannelli di studenti che, mentre il caso diventa sempre più fuori controllo, attendono con i cartelli fuori dalle finestre.
I conflitti irrisolvibili che vengono messi in scena non possono certo avere soluzione. Qualcuno verrà tamponato con un colpo di intelligenza, qualcun altro vedrà sconfitto chi è dalla parte della ragione. Ma Ji-Yoon è chiara nel dire che sono i ragazzi fuori dalla finestra il vero centro di tutto, quello che sta accadendo davvero. Loro che sono di diverse estrazioni, generi, etnie e dicono a un maschio-bianco-eterosessuale che non vogliono sapere da lui come si devono sentire.

© Giovanna Amato

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