Su Scavi urbani di Giovanni Lovisetto
Nota di Sara Vergari
Questo di Giovanni Lovisetto è un esordio che conferma la qualità della giovane poesia italiana, che fin dalle sue prime prove regala esercizi promettenti. In Scavi urbani (Transeuropa, 2021), l’autore, in accordo con il panorama contemporaneo, non dimentica di far parlare l’Io che, muovendosi tra geografie concrete ed emotive, traccia un suo personale viaggio stilisticamente ben compiuto tra il sé e l’Altro. Le prime due delle tre sezioni che compongono il libro, Parlarne con gli altri e Difficile a dirsi, portano già nei titoli lo spettro del faticoso percorso che richiede il presentarsi al mondo per ciò che si è, e così raccontarlo e raccontarsi. Nella successione di ricordi che animano questi testi prevalentemente al passato, c’è il rimorso di non aver detto, l’assoluzione che tarda, ma anche il coraggio di sradicarsi dalle origini per rifiorire in altri e altrove, e di vivere in tutte le sue sfaccettature. E d’altra parte, l’oggetto poetico a cui alludono due particelle misteriose come “si” e “ne” in questi “dirsi” e “parlarne” altro non è che il desiderio stesso di comunicare una verità onesta che forse solo la poesia ha il potere di proteggere dagli attacchi di una realtà compromessa. Il testo di apertura che guida simbolicamente gli altri, infatti, si annuncia con la parola “ricordo”, graficamente isolata a costituire il primo verso, come un sospiro che sopraggiunge e che la scrittura restituirà poi, quando il foglio bianco sarà riempito: «ricordo/ questa stanza/ in cui mi appiglio a un foglio/ mentre il silenzio si posa/ sugli oggetti/ come una mano di polvere». L’amore, che rivendica la sua natura omosessuale, gli affetti lontani e vicini, lo spaesamento del lockdown, tutto questo viene presentato così come si conserva in chi lo ha vissuto in prima persona, con la lucidità di un lessico dettagliato e spolverato dei residui artificiosi. L’attento scavo delle memorie riporta in superficie solo le percezioni più intime e autentiche, i «suoi occhi/ che in parti uguali specchiano/ il cielo più limpido di aprile», la «fragranza in cui ci colse il bacio/ fuori dal locale», la «prima sillaba dell’eremita/ alla fine della clausura».
La terza sezione, Più sei meno sei, aggiunge agli scavi esistenziali della prime due una traiettoria urbana precisa, e con essa lo sfasamento di vivere qui e là contemporaneamente, a sei ore di fuso orario tra aerei in partenza e una distanza che si cerca continuamente di annullare. New York e l’Italia sono un’endiadi, e così tutte quelle che compongono il testo “doppiomondo” che, se accostate nel verso, ricuciono lo scarto spazio-temporale, azzerandosi algebricamente come fanno “più sei meno sei”. Eppure, come suggeriscono la citazione in epigrafe da Dürrenmatt e la poesia di chiusura del libro, «non c’è formula o calcolo che tenga» che possa far tornare i conti e sospendere l’Io, e l’uomo in generale, dal caos della propria esistenza; c’è lo scrivere, il provare a dire con una voce dialettica che unisce da parte a parte due coste divise da un oceano.
frequento treni come pensatoi
paesaggi sfumano tra bisbigliati
sonni e alito che sa di fumo
storie d’amore e noia
libri labbra cellulari
ipotesi di vita sotto le giacche;
riflessa sul finestrino
mando a memoria la storia tra me e te.
Sul treno nulla da perdere, nulla
da lavorare. È solo una parentesi
che si apre,
l’inizio e la fine di ogni galleria.
*
non basterebbe una tavolozza intera
per fare il colore che oggi era sui muri delle piazze
e barbe e guance di chi si bacia e dice noi, noi tutti.
I preparativi furono lunghi e laboriosi, senza contare
gli anni: le parrucche, gli smalti ed io che amavo
e soffrivo del vostro amore.
Fuori era lo spazio conquistato,
quello tra labbro inferiore e mento
–mano nella mano, pelle dura,
vera similpelle che protegge
fino alle caviglie, come una sposa,
in quel sincero suo itinerario
essere signora.
La maglia a rete chiusa nell’armadio
ha parlato con le tarme,
ha aspettato la fine dell’inverno.
Poi fu un remix pop,
l’antico inno di liberazione,
la giacca rigorosamente leather,
nei suoi jockstrap
ballava a un ritmo tutto suo
“ho sempre preferito gaio a gay,
come se fosse un’opera sinfonica”
–nulla vince su nulla,
ci coprano di insulti
e di coriandoli today!
E tu tra le migliaia di oggi sei
la banalità di tutto ciò che ho sempre voluto,
la sete di quel giorno che ci spinse
all’acqua delle cosce: l’orgoglio
più grande poterlo dire nostro,
gridarlo di piacere mentre fuori
ancora un microfono, una piazza,
il colore dell’aria a dettare la preghiera
amore, non rivestirti mai.
© Sara Vergari
Giovanni Lovisetto, Scavi urbani, Transeuropa 2021