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Luca Pizzolitto, “La ragione della polvere” (rec. di Pietro Romano)

Luca Pizzolitto, La ragione della polvere
peQuod 2020
Nota di Pietro Romano

La prossimità di Pizzolitto all’«inesprimibile nulla» ungarettiano è anzitutto nella scelta di una versificazione capace di fare coincidere il significato con un alone di indefinitezza. L’interiorità del poeta ricompone in unità il vuoto delle vertigini e delle dispersioni e si riconosce nella ricerca dell’assoluto: «È qui che si spezza e frantuma l’attesa,/ è qui che si fa livido e incerto/ anche l’incanto, il senso della fine./ Nel tornare della rondine a primavera,/ nel desiderio dei miei occhi,/ nella danza di un nuovo aprile./ Tutto ciò che vive soffre,/ un grido di rabbia e d’amore». Il rapporto io-cosmo è, dagli inizi della raccolta, inquadrabile nella forma di spasmi che suggeriscono l’alternarsi di aneliti vitali all’insensatezza dell’occhio-testimone del decadimento di ogni cosa. Spasmi è il titolo della prima sezione di La ragione della polvere e risponde da subito a un’urgenza di verticalità dell’io, conscio dell’impossibilità di un desiderare mai pago di sé: «Qualcosa resta in silenzio/ e rimane nascosto/ nel niente senza stelle/ che ti riempie e consuma./ Anche in me attende/ il vuoto straziante di Dio,/ e questa ignobile,/ mai sazia inquietudine./ Le api tracciano geometrie gioiose/ tra i fiori di pesco e il cielo». I vuoti di significato costituiscono momenti di vera elevazione per lo sguardo del poeta impegnato a stabilire un’intima comunione con il paesaggio naturale, sempre pullulante di brusii e rumori che evocano una vitalità disperata ma resiliente: «Stupende sono queste grida/ che smembrano la notte,/ stupendo è tutto ciò che sopravvive/ all’affanno scarno delle cose,/ la luce austera del mese di marzo,/ nel niente colmo di misericordia/ di un nuovo, disperato silenzio./ Dura un istante questa misera gioia». La luce è un nulla che benedice e che rompe da uno squarcio per essere trasmutata in una nuova opportunità di contatto tra corpo, mente e cosmo. Questa esigenza di comunione con lo spazio si trasmette anche alla voce del poeta, effusa in un tutt’uno con uno stile limpido e immediato. La parola poetica risulta caricata del massimo di tensione espressiva e orientata a sollecitare un potenziale di rivelazione: «Per spegnere e poi splendere,/ anime sante nella memoria./ Si alza piano la luce del giorno,/ pigra, inconsapevole./ È un grido strozzato l’innocenza,/ è un fiume in piena la mia lontananza./ La vita, anche tu lo sai,/ è questa cosa atroce e fragile». Vita e morte appaiono protese verso ragioni che appartengono all’indicibile e dinanzi alle quali il poeta sperimenta l’incommensurabilità del non-senso. Quest’ultimo punto emerge con forza già a partire dalla seconda sezione, Noi che abbiamo perso la fame, in cui versi come «Trovare la fine/ a questo umano esilio/ nello sterminato/ silenzio di Dio» conducono il lettore sull’orlo di un abisso, quello del mistero che di sé permea l’universo. La vita pare discendere da una ferita alle radici di un’origine che «spinge e rinasce»: «La mia ferita di solitudine/ si perde nel riflesso/ del Tuo volto, nel tributo/ che devo alla lentezza,/ nella gratuità delle cose/ che sempre meno/ ci appartiene./ Solo un inesprimibile/ desiderio di infinito/ mi spinge e rinasce». Dunque, è quel taglio alle radici stesse dell’esistere fonte di ogni desiderio che fa tendere l’uomo all’infinito e a un perdurare nella condizione di esule dinanzi alle cose. Da questi motivi tematici allora sembra discendere una nostalgia di assoluto e indefinito, mai paga proprio perché manchevole di risoluzione e significato: «Nello spasmo quieto della sera,/ anche i miei passi abbandonati/ alla resa, vele tagliate dal vento,/ letti sfatti nello schianto della polvere,/ ferite aperte, posacenere colmi,/ questi anni volgari consacrati/ al superfluo, al vezzo, alla noia./ Non c’è nostalgia più dolorosa/ e grande di questa mai paga/ nostalgia di Dio». Questa tensione spirituale trae sostentamento dalla permanenza dell’io in uno stato di mancanza del quale, però, La ragione della polvere raccoglie anche le tracce più luminose, a volte sedimentate in un passato per sua natura irredimibile: «L’amore è immobile nella sua danza,/ i tuoi occhi chiedono perdono,/ dimenticati nella luce fredda/ di ottobre./ In qualche parte di noi ho sentito/ la vita stringere la vita, / il mio volto posarsi sul tuo seno/ dolce di madre». In apertura della terza sezione, Dal profondo, questi versi anticipano i segni di una metamorfosi, che attesta un cambio di passo e un punto di svolta nella rappresentazione poetica. La lontananza nella quale ha sede il desiderare è «approssimata» e assume sembianze nitide d’attesa, quest’ultima ora vista come necessaria al compiersi degli eventi: «Piano il dolore si scioglie,/ nodo di pietra sul viso,/ nella lontananza approssimata/ delle cose./ È un tempo che si fa volto e parola,/ e chiama forte il nome dell’attesa./ È tutto ciò che non avviene e/ mai avverrà, in questi giorni/ di nubi strappate e calma insicura». L’io si scopre in una dimensione di continuità con tutto ciò che non è afferrabile dalla ragione e tuttavia matura una prospettiva di significato proprio a partire dalla concretezza della vita e del suo contrario: «Scorrono in te sorgenti, brevi istanti di vita che/ torna e non muta./ Ho osservato inerme il morire,/ l’inesorabile farsi polvere/ e svanire di tutte le cose». Nei versi di Pizzolitto pare così sintetizzarsi una visione delle cose per la quale, in senso rilkiano, «il bello è solo l’inizio del tremendo» e dunque figurazione del possibile e dei suoi rovesci. Per questa ragione, l’immaginario poetico di La ragione della polvere è abitato da «occhi superstiti» che «scrutano l’inquietudine dei giorni»: sono gli occhi di chi si è misurato con l’ineffabilità del possibile e l’insufficienza della parola consegnata al ricordo: «Ho contato il tempo nei tagli/ del tempo, nelle pieghe/ degli occhi sopravvissuti all’inquietudine dei giorni./ Ho staccato due foglie/ dall’albero delle illusioni,/ ho trovato rifugio/ nello spazio incerto/ lasciato al ricordo». Al poeta non resta che donarsi al flusso che ogni cosa trasporta per avere dimora e cessare il proprio esilio: «Fiori spaventati dalla notte,/ città cui non siamo mai sopravvissuti,/ da cui non siamo mai tornati davvero./ Lasciarsi andare al lento accadere/ delle cose, perché la nostra dimora/ è oggi tra le rovine e la danza». Per rammendare la distanza dalla propria voce, Pizzolitto non può non tornare alla memoria dell’infanzia. Quest’ultima giace in un esserci che è già altrove ma che comunque si ripete nell’atto della parola in quanto istanza generativa: «I miei occhi incontrano il pianto,/ madre, e nel silenzio di un martedì/ di marzo ritorno bambino/ tra le tue braccia colme d’amore./ Dimentico, per un istante, la paura:/ in questo mio esserci e stare,/ come la polvere». La polvere nella quale ogni cosa si consuma è invero prodiga di benedizioni che rendono conto della continuità del respiro di tutto ciò che è travolto dal tempo. Rievocare è un modo del poeta per sentire la propria esistenza come una parte del tutto, suggerendo il valore sacro e rituale della memoria. «L’insperata quieta» cui mira Pizzolitto è fare del cielo carne e respiro, in un’ottica di conciliazione del corpo con il cosmo. Fame e sete allora non figurano più come struggimento, piuttosto benedicono lo sguardo proteso in una ricerca di sé che va al di là di ogni comprensione e che si identifica nei possibili. Esemplare di questa constatazione paiono alcuni versi contenuti nell’ultima sezione di quest’opera (Prekrasnyj: lo splendore della bellezza), frutto di un percorso trasformativo sofferto e non ancora conclusosi: «Farsi nuovamente stranieri/ lungo un cammino/ imprevisto e sconosciuto./ Respiro l’assenza di Dio,/ nella solitudine/ di questi giorni bui di dicembre».

© Pietro Romano