
Croce stilografica
Sincerarsi a ritroso non può essere, altrimenti
sempiterno
aggrovigliare di fortune all’umido dei tessuti
molli.
Così non sa resistere lo scadenzario complesso
del cancro, già troppo
a lungo il poema ha spalpebrato verso lune
materne.
Come pattinare via
sul lampioneto è irredimibile,
progetti e ronzii vorticosi a questi ritmi conciano
alla demenza
in una panoramica bassa.
Se l’aria di fuori, imbrigliata di fischi non fosse
tenacia d’azoto e nervi.
Non assumerei l’intero quartiere
in un grumo di tegole
e ammennicoli prima di svanirti a intermittenza
nei sottobraccio.
Guardaci, piccoli wormhole prematuri
impigliati in un discorso di mani
ghiacciate. Ci sperperiamo a vicenda gli sguardi
col buio
gravitandoli a ragione.
Chora o l’unico presente
Frattempo.
Neppure nel fiato in costante svestitura
che accorge bene
dello scheletro, e del suo reclinarsi
in acqua dolce
come alga alle correnti.
E non si da per sempre finanche
la disinvoltura, asciugare desideri infradiciati
nei cappotti del ritorno.
L’inutile si può, non far presente
il controrespiro
che partecipa in precedenza. Dunque
di riflesso temprale, dialogando i possibili
impianti, nuvolii
di scosse che introducono i polsi
al morso di redini
assicurate all’immobile, traversando
in apparenza si può. Solo questo
non contenere
il rapporto alla lettera
in alfabeto di falsi cerchi, eppure
intrasentirlo
capitare al discendere perpendicolo
della sera. Invece, non si può
smettere, nella vertigine della sproporzione
la fine ricorrente degli annunci.
Essere uno
nel buio osceno della saliva, né più leggeri
serbarsi
oltre la soglia. Spalancati si deve
al venir meno non fruibile della bocca.
In dono un’aferesi al corpo
Potrei essere trovato ma non consola.
Nessuno può sterrarmi il finito
a precauzione dell’errore intenzionale. Io, senza alcuna
autorità ma a dovere assisto
chi mi divarica in attesa, foro o croce
che pure è da questa certa, assenza dell’apparire
che sperde eterni
a manciate sull’imitare di una soglia.
Voci in miniatura sbraitano cordiali al raffreddarsi
dell’azzurrina cera, depongono
l’autorità di ogni eletta strategia, e con quella
esatta, irreprensibile stessa
compiacenza che la pietra cova per l’informe, bevendo
il grezzo materiale del cielo
assentano.
Potrei essere trovato ma non consola.
Osarvi vicini invece, e sconosciuti senza addii
o microscopi a posteriori.
L’emozione oraria cade in centesimi di suono.
Tuttavia restano esatte le qualunque, a me, dico ognuna
delle vostre
svariate, retrattili conoscenze. Eternamente
mi costringono a negarvi per gioco del crudele uguale.
La fiamma indaga un’infinità di pronunce
La fiamma indaga un’infinità di pronunce
senza mai destarle, non intrattiene. Preme e scova
con freschezza d’impulso la radice di un timbro fossile.
Ci esaudiremo a vuoto calando nel gorgo la tensione
orbitale. Ai piedi del letto
forse, sbiancando al tramonto di una luna di fossa.
Piuttosto che tra cose vive, potessi scrivere
Piuttosto che tra cose vive, potessi scrivere
assassinando della parola
la dimensione, la capsula di polvere estiva
o il palissandro delle conversazioni ad anni luce
dalla Zeta e l’ammoniaca delle scale.
Vengo a prenderti, la bruciatura sul polso data via
e l’insonnia per un’alba di carne frusta.
Il cielo grigio ha saturato gli alveoli, d’inerzia
e d’insaputa gli abitati trapelano
sull’arena come esche per il temporale.
Qualcuno chiede, è solo un riflesso
il cielo grigio che affligge ogni cosa? Al contempo
rifugiando meravigliose agonie
lontano dagli occhi allarmati, è solo un riflesso.
La tua figura spiccata all’arrivo tra la folla.
Inseguire la rosa grigia di un incontro frontale
legato al volo di una scia stretta dietro le tue scarpe.
© Edoardo Scipioni