«Una strana amicizia, i libri hanno una strana amicizia l’uno per l’altro. Se li chiudiamo nella mente di una persona bene educata (un critico è soltanto questo), lì al chiuso, al caldo, serrati, provano un’allegria, una felicità come noi, esseri umani, non abbiamo mai conosciuto. Scoprono di assomigliarsi l’un l’altro. E ognuno di loro lancia frecce, bagliori di gioia verso gli altri libri che sembrano (e sono e non sono) simili. Così la mente che li raccoglie è gremita di lampi, di analogie, di rapporti, di corti circuiti, che finiscono per traboccare. La buona critica letteraria non è altro che questo: la scoperta della gioia dei libri che si assomigliano».
Mario Praz

Telemaco
Odisseo a Telemaco
Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.
Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.
Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.
da Josif Brodskij, Fermata nel deserto, 1979
(traduzione di Giovanni Buttafava)
– Tremante come un dio in esilio abbranco
in sogno quelle schiene morte, affondo
solo in nomi di promesse nel bianco
delle voci. Sono nel fiato monco
gli eroi perduti che non ho mai visto,
erosi con la lingua, in girotondo.
Sono gli offesi in coma, sperma misto
di sangue al cieco viso e già lontani,
io che abbranco umid’aria e non ho mai. –
gennaio ’96
Telemaco scende ai morti
da Giacomo Trinci, Telemachia
[…]
Padre e figlio si lasciano muti nel lungo corridoio;
Ulisse sale sull’alta torre per placare lo spirito,
mentre il figlio sconvolto si stende sul letto, e sente
le tempie senza ali stridere e aprirsi per accogliere
la mente audace e ingegnosa del feroce genitore.
Dio, come si avventa sulle anime, come le depreda!
Dritto sull’aia della terra, agita il suo tridente,
e nel vento che soffia separa il grano dalla pula:
quest’ultima per gli animali, il primo per le mole
lucide e tacite della mente, che lo macina fino.
Il figlio inorridisce, smania di liberarsi del padre,
che vada, dilegui come schiuma nei flutti della notte.
Tesse e disfa mille inganni nel telaio della mente,
ma ormai è stanco, e rannicchiato cede al sonno.
Mentre l’occhio si fa vitreo e la mente si spegne,
il sogno rapace, accovacciato sul cranio, lo artiglia.
Sogna una spiaggia, è in piedi su uno scoglio e piange,
aspetta che il grande genitore compaia dalle onde;
e mentre piange sente scendere due ali enormi;
alza gli occhi, rapida un’aquila gli si avventa contro
e senza pietà gli affonda gli artigli nella testa;
lancia tre gridi acuti, poi balza con lui nel cielo.
Il giovane abbraccia con terrore il collo del rapace,
e chiudo gli occhi per non vedere la terra allontanarsi.
“Padre, dove mi porti su in cielo, perdo la ragione!”
Ma più sale in alto, più sente che sulle spalle crescono
ali ricciute e vellutate, e al suo sguardo appare
la terra lontana, che come una lepre bruca l’aria.
Ora ha un cuore d’aquila in petto, unghie più mature,
e aggrappato al vecchio rapace si libra con orgoglio.
“Padre, apri gli artigli, ora son forti le mie ali!”
La vecchia aquila strilla furiosa, e con somma gioia
batte le grandi ali, schiude le zampe con gli artigli,
e nell’aria rovente di astri il giovane s’inabissa!…
Il figlio lancia un urlo e salta sul letto ansimando;
brancola al buio, poi si calma, è stato solo un sogno,
un pensiero stolto, nato nella notte ammaliatrice;
ma ormai il sonno lo ha lasciato, e tutta notte sente
le grandi ali d’aquila battergli sopra la testa. […]
da Nikos Kazantzakis, Odissea, Canto I
(traduzione di Nicola Crocetti)