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Marco Annicchiarico, Poesie per il risveglio

Marco Annicchiarico, Poesie per il risveglio. Prefazione di Anna Ruotolo. Postfazione di Gianni Montieri, ‘round midnight edizioni 2019

La citazione dal primo atto di Götz von Berlichingen di Goethe – «Wo viel Licht ist, ist starker Schatten», riportata in questa traduzione: «Dove c’è molta luce, l’ombra è più nera» – costituisce un vero e proprio filo conduttore per la raccolta di Marco Annicchiarico Poesie per il risveglio.
C’è tanta luce in queste poesie. È una luce che non acceca e che pure segue un suo sentiero e che quel sentiero indica, per vene, per fili, per improvvise emersioni, per constatazioni illuminate e per presagi di perdite. L’ombra si fa forte della coesistenza con la luce e assume le sembianze di intrico e inciampo nel sentiero. Non solo, tuttavia, ché l’ombra ha l’incanto di un profilo disegnato su una parete e contemplato nella nettezza dei suoi contorni emersi dal contrasto con la luce.
È proprio la superiore realtà della fiaba a imprimere il suo passo in Poesie per il risveglio. L’invenzione poetica sorprende per la verità delle immagini, scaturite da uno sguardo che spazia su diversi piani temporali, con diverso grado di prossimità alla biografia, e che questi piani combina e collega, in virtù della capacità di quello stesso sguardo di cogliere, individuare, farsi saturare, restituire comprendendo e interpretando. Nella prefazione di Anna Ruotolo, che porta il titolo La poesia che toglie il sonno e riprende a parlare, c’è un passaggio particolarmente illuminante al riguardo: «In un momento non bene precisato, questa Verità non contaminata nelle sue attribuzioni fondamentali, perché vissuta e nutrita in un anfratto libero da incursioni o influenze, viene a farci visita entrando, non invitata, dalla porta. E non va più via da noi».
Ecco che la Verità dilata, estende lo spettro dello sguardo e lo porta a scovare la presenza delle tante ombre, che si manifestano, con l’efficacia del paradosso, come assenze, fantasmi, sogni, occasioni, percorsi consapevolmente inattuali, coraggiosi perché il prezzo dell’intuizione felice può essere ben quello di sentirsi costantemente inadatti. Scrive infatti Gianni Montieri nella postfazione: «Ogni verso della raccolta mette in evidenza il rapporto tra inadeguatezza e ritrovamento».
Il passo della fiaba – Prima dell’alba, Incanto – raccoglie, strada facendo, i suoni ascoltati in passato e restituiti con originale ironia – Rimmel, Settanta –, si impregna di percezioni olfattive e visive, come in A Paola, volge il desiderio in quesito aperto, rivolto a sé e agli altri, come avviene in Ventuno settembre, testo che ho avuto il privilegio di leggere anni fa, un 21 settembre, in una giornata di “Poesie per la pace” organizzata a Roma da Isabella Moroni. L’interrogazione posta da quella poesia si fa invito, espresso con volume basso e voce sicura, a riflettere prima di riprendere.
Destarsi e continuare senza tralasciare il sogno e il ricordo: le Poesie per il risveglio di Marco Annicchiarico arrivano come una mano posata sulla spalla a dire: sosta pure, ma non lasciarti paralizzare, prova pure paura, ma portala con te come compagna di viaggio, imparerai a conoscerla; ricorda quel tremare della terra – Irpinia 1980 – e su quella terra continua, più lieve, ma con un passo più consapevole, a far muovere i tuoi piedi.

©Anna Maria Curci

 

Ventuno settembre

Fosse sempre domenica mattina
per scambiarci un segno nella fretta
e ricordare col sorriso di un bambino
che il corpo di Cristo è altra cosa.

Fosse sempre luglio per lasciare la città
e tornare alle origini oppure agosto
per stare fermi a guardare una stella
e un altro desiderio passare.

Fosse sempre il tempo che non è
quello delle bandiere appese sui balconi
come a un filo di speranza, in Italia
come in Siria, anche quando fuori piove.

Fosse stato tutto questo, oggi sarei
andato al mare, avrei preso una birra
e sarei rimasto steso al sole, senza chiedermi
perché di pace si scrive solamente e non si vive

 

Terra

Giungere a Itaca,
o anche solo al confine,
con la barba degli anni
e le mani segnate.
Sia rosso il sangue e il vino
che ancora manca
da bere a labbra stanche
in attesa di riposo.

Hai visto?
Fuori piove.

E il lampo è un segno,
la stella cometa da seguire
per rientrare nella nostra terra.

Nel nome del padre

La chiesa della prima comunione
e fuori gli alberi, a cambiare il colore
tra le ostie sconsacrate
e il vino, per noi versato.

Il prete, sepolto dietro l’ulivo
del convento, ha lasciato le impronte
sull’altare dei miei anni,
mentre il suo Cristo
a denti stretti taceva ogni male.

È la chiesa dei Caputi, quella
di quando da bambino
sognavo storie di fantasmi,
scheletri e messe nere.

Era il tempo della mietitura,
delle ristocce accese e di quelle cose
che ancora non sapevo,
quando il mio cristo
pronunciato a denti stretti
nel buio faceva quasi male.

 

Prima dell’alba

La nonna raccontava storie
seduta intorno al braciere
tra scorze d’arance e bambini svogliati.

Era sempre la stessa storia,
di padre in figlio.

“Il paese, visto dalle ali di un aereo,
diventa un serpente di luci gialle,
un pensare alla rovescia.
Senza le televisioni,
l’uomo si misurava in ettari,
si colorava del verde attorno alla casa,
tra la strada di ghiaia e la polvere”.

Oggi, è dimenticato tutto. Si resta
senza memoria e l’uomo si misura in carati,
al collo, alle dita, altre volte nella bocca.
L’oro è nel masticato, non più nel parlato.

Marradi ora è lontana, come mia nonna.
Senza baciare terra chiuse gli occhi
prima dell’alba, quando una farfalla
sul davanzale posò le ali.

E di quella storia
ancora oggi, non so la fine

 

Incanto

Ogni notte ti conto
le cost(ol)e, segnando
il limite dei sogni
con le dita.
————————Distesa
hai il sorriso di chi
è felice del profilo
della sua ombra, il respiro
di chi è già altrove.

E ogni notte racconto
le favole all’interno del tempio
dove il tuo cuore aspetta
che le mani accostino
le tende alle finestre,
luce bassa per nasconderci
voce bassa per affinare il canto.

 

Settanta

Quella volta che ho camminato per cinque ore
di seguito, sotto il sole, lo zaino sulle spalle,
ho pensato davvero sarei arrivato altrove.

Ho immaginato di tagliare in due la strada,
guardandomi dall’alto prima di entrare in galleria.
C’era l’odore del fieno appena tagliato e quello
dei panini di mia madre, quando le macchine davanti
usavano sillabe diverse e mio padre mi interrogava.

C’era un posto in cui arrivare, dall’altra parte,
tra volti amati e altri sconosciuti. C’era una casa
da ricostruire e un cane a cui dare da mangiare.

C’era anche il tempo, hai detto,
per passarmi a trovare, lasciare un libro sul camino
prima di cena e le scarpe accanto al letto.

È che si finisce di amare,
come lo spegnersi di una sigaretta.
E altro non resta che il ricordo e una strada nuova
da camminare, mentre i volti cambiano
e una scritta resta sui muri

“Viva l’Italia, l’Italia liberata”?


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