Alessandro De Santis, Mura amiche
Transeuropa, 2019
Intervista a cura di Gianluca Garrapa
Gianluca Garrapa: la casa è causa di straniamento, gli occhi scorgono l’altrui desiderio, quello che attira il corpo della madre. È una pietra, questo peso leggero, che diventa immateriale parola, l’atto di forza cui il poeta si abbandona nel decriptare i luoghi conosciuti, familiari, le mura che aprono come un grembo, anche se contengono l’esplosione del corpo negli oggetti. E gli oggetti raccontano storie per il mezzo del corpo che scrive, gli oggetti che diventano cose, cause, appunto, di sguardo poetico.
Scintillante
in poca luce –
quella luce
che elenca le cose
Furiosamente triste.
È Torcia una tua breve illuminazione: ma sono le cose a illuminare il poeta o lo sguardo dell’essere umano a poter dare voce-luce a quel richiamo, rimembrare attuale, che risiede negli oggetti?
Alessandro De Santis: l’equivoco di partenza è quello di una presunta – quasi oggettiva – inanimatezza delle case e dei loro oggetti.
Una casa, una stanza, un muro parlano, raccontano, hanno la loro petite musique che non si può semplicemente elencare, con un minimalismo del dettato, rovescio di un certo levigato cinismo che pare aver fatto scuola.
È invece dalla crepa che entra la luce; proprio quella crepa che segna al tempo stesso la frattura e che renderà la cosa nuova, qualcosa di meravigliosamente diverso.
Una materia appunto happy sad o furiosamente triste.
G.G.:
Tra le inferriate
A Elliott Smith
Dove tutto inizia:
Lo struscio fatto in auto
le persiane in alluminio
i serramenti
l’intonaco plastico
Ringhiere,
fioriere in cemento,
superfetazioni
Con il naso
tra le inferriate
Osservi
le persone che sei stato prima.
Lo sguardo non cataloga soltanto, ma forse ordina, impone gerarchie o semplicemente si lascia attrarre da associazioni casuali. Nulla però è dato al caso in questa scrittura che è molto pulita eppure complessa, nel senso di intessere insieme, e di lasciare comunque le individualità oggettive alla loro singolare esistenza. Noi siamo gli altri che eravamo, come in vite parallele, anzi, ortogonali. L’altro torna comunque, l’altro materno, l’altro perduto per sempre che sempre tentiamo di riprenderci negli oggetti che frammentano il vivere e che sono una parte di un tutto smarrito dal momento in cui siamo diventai esseri di parola. La tua poesia è un linguaggio sotteso al sogno e al segno esterno, al sintomo (tutta la scrittura è un sintomo, chissà di cosa): che rapporti hai con l’altro poetico, con i maestri del passato e con quelli del presente, e che rapporto hai con l’altro non-poetico, con la pittura, a esempio, con la musica?
A.D.S.: Il rapporto con l’altro è per me aspetto costitutivo e fondante, è solo attraverso l’altro che la mia riflessione poetica trova senso e definizione. Diretta conseguenza di questo è l’assoluta centralità della lettura e del confronto, del corpo a corpo giornaliero con quelli che tu definisci i maestri (in senso non arbasiniano). Verso però nessuno di questi maestri passati e presenti ho nutrito e nutro idolatria letteraria. Ho le mie predilezioni ovviamente che però sono legate a singole poesie o al massimo uno specifico libro. Anche quando è un autore in toto a conquistarmi, sono comunque sempre pronto a metterne in discussione il lavoro, se necessario.
Se è vero, come è vero, inoltre che “la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”, è fondamentale andare poi a de-linquere, ad abbandonare la propria placida sponda per gettarsi nella corrente alla ricerca della propria voce, del proprio posto nel mondo. L’altro diversamente poetico (considerarlo non-poetico mi pare impossibile) è un incessante incontro: nutro un notevole interesse in particolare per la fotografia, il cinema e soprattutto per la musica. Molti dei miei testi probabilmente senza la musica di Jeff Buckley, Nick Drake, David Sylvian non sarebbero esistiti o avrebbero avuto ben altra forma.
G.G.: Mura Amiche è diviso in parti: Camera oscura, Harri-Jasostze, Gli eredi del vento, I senti lunghi, Oltremura, Casa d’altri: credo ci sia un filo rosso che lega questi luoghi della partizione scrittoria come un corridoio su cui affacciano stanze diverse e simili tra loro. Con quale criterio hai operato questi tagli?
A.D.S.: Mura amiche si apre con una stanza d’ingresso, anticamera del vissuto che si va poi ad associare alla Camera Oscura che dà il titolo alla prima sezione. Ci si addentra nella casa, abituando la vista. Tutto l’intero percorso può essere visto come un unico lungo piano sequenza, o ancora meglio una sovrapposizione tra diversi piani sequenza. Il libro trova poi il suo naturale approdo nella sezione Casa d’altri (omaggio a Silvio D’Arzo) in cui il recinto dei versi della Anedda posti in esergo diventa poroso. In questa sezione conclusiva, infatti, l’avvicinarsi al “dentro” delle case e delle vite degli altri e la familiarità si svelano come una vera e sensuale conquista.
G.G.: Sporcizia 1 e Sporcizia 2 spostano la lunghezza del verso, mutano il ritmo e allungano il passo verso una poesia di prosa. Quanto meno appaiono pause diverse che ci alterano il passo e lo sguardo. Forse che, mi è venuto da sentire, la differenza tra una poesia e una prosa possa passare da come si distribuisce il silenzio, «Eppoi se uno tace, non tace perché vuole mettersi in ascolto, ma vuol semplicemente tacere» (Sporcizia 1), e l’oblio: «Il gioco consiste nell’accontentarsi di niente. Vi sono esercizi d’oblio appuntati sul muro. Nomi e cognomi serviti col lime» (Sporcizia 2).
Dimenticare e fare silenzio: fare il vuoto, ricreare, riprodurre il nulla. Cancellare. C’è una differenza, secondo te, tra prosa e poesia nel calibrare questi due atti così strani e contradditori? E che ruolo ha, nel paesaggio della scrittura di Mura Amiche, la Sporcizia?
A.D.S.: Nello scrivere da anni uso indifferentemente sia la prosa che la poesia. Nel caso dei due testi nominati Sporcizie la scelta è stata ovviamente funzionale all’architettura vettoriale del libro. Le due sezioni centrali difatti terminano ognuna con questa brevi prose poetica (Sporcizia.1 e .2), quasi a voler riprovare come la casa ha un suo prodotto, un suo rifiuto organico, secondo un ciclo peraltro alluso anche in un macro-percorso che implica il tacere e la genesi come silente ritorno. Curiosamente, proprio ritornando all’altro non-poetico, entrambi i testi prendono spunto dal lavoro di due giovanissimi talenti, il primo testo dal film È solo la fine del mondo del regista canadese Xavier Dolan e il secondo dal libro In che luce cadranno di Gabriele Galloni.
G.G.: Domandone finale (quasi un gioco): (le cui risposte sono, ovvio, a tua discrezione): dove scrivi, quando scrivi, dove cammini quando ti riposi? in quale città o paese è nato il libro, in che stanza, in che bar? sei mancino o destrorso? passeggi? in bici, in auto, osservi alberi? scruti cornicioni, affondi lo sguardo nel cielo, segui le onde del suono e dell’acqua? quali sono i rumori della città e quali i silenzi delle vaste campagne? fumi? bevi? quanto pesi? scrivi dopo cena prima di pranzo? quando? la tua è scrittura di spostamento di stasi, di spazio, del corpo?
A.D.S.: Accetto volentieri il giocoso invito a rivelare anche quello che è l’aspetto meno visibile della mia scrittura. Scrivere scrivo dappertutto, ovunque mi trovi e in questo sia il cellulare che un sempre presente taccuino sono di grande utilità. Se posso cerco di scrivere immediatamente – questo sempre a penna – la prima idea e poi, di solito alla sera, cerco di ritornarci su con calma e di riscrivere e limare. Mura amiche è un libro che ha avuto una gestazione lunga e itinerante, non ha avuto proprio un suo luogo specifico, anche se le sue fondamenta risiedono nel paese in cui vivo, Lanuvio, ai Castelli Romani. Ricordo però bene che la prima poesia del libro (oggi nella parte centrale del lavoro) l’ho scritta dopo aver visitato l’orto botanico della città di Lucca. La mia è comunque una scrittura che nasce molto on the road, di cifra prevalentemente urbana anche se nel mio paese c’è anche molta campagna e verde, laddove mi piace passeggiare, osservare e soffermarmi a lungo, magari su un dettaglio o un minuscolo particolare. Sono ambidestro, non fumo e bevo solo superalcolici, peso abbastanza, mi piace guidare spesso anche senza una meta precisa. I titoli dei miei libri sono nati quasi sempre in coda in auto o in fila ad un semaforo. Autodefinire la mia scrittura è ostico; sicuramente però è una scrittura di movimento e in movimento, una scrittura verso, in cui l’autenticità, il doppio e la duplicità nel tempo e soprattutto nello spazio sono tra le tematiche che mi interessano più profondamente.