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proSabato: Giovanni Fasanella, Il puzzle Moro

Giovanni Fasanella, Il puzzle Moro

 

Ma, come pensavano Pecchioli e Violante e poi compresero anche i socialisti, esisteva qualcuno che aveva deciso sin dall’inizio quale sarebbe stata la sorte di Moro. E allora, perché sequestrarlo e riconsegnarlo morto dopo cinquantacinque giorni? Non sarebbe stato più semplice eliminarlo insieme alla scorta, in via Fani? Sono domande che si sono posti tutti, sin dalla mattina del 9 maggio 1978. E sono state per decenni al centro delle polemiche tra chi pensava che Moro avrebbe dovuto essere salvato e chi invece riteneva di no. Questi interrogativi se li è posti anche Miguel Gotor e, da studioso fra i più preparati della vicenda, suggerisce una risposta.

«Per capire le dinamiche dell’operazione Moro – dice – bisogna considerare che non si è trattato dell’uccisione di un “re”, di un “sovrano”, come ce ne sono sempre state nella storia dell’umanità, da Cesare, a Enrico IV, a Kennedy. Se le Br avessero voluto soltanto ucciderlo, lo avrebbero fatto, appunto la stessa mattina del 16 marzo. Fu un’operazione molto più raffinata: non la semplice eliminazione di un “sovrano”, ma il suo rapimento che si concluse con il suo assassinio. E, di eventi del genere, non ce ne sono molti nella storia.» Continua Gotor: «Ma quello non fu un semplice sequestro di persona, seppure seguì le regole, la logistica e l’organizzazione di un normale rapimento gestito dalla criminalità organizzata, un tipo di reato allora molto diffuso in Italia. Ma Moro non era un farmacista di Orgosolo, bensì un uomo di Stato, con una qualità di esperienze e di rapporti a livello italiano e internazionale di grande rilievo. Per la qualità dell’ostaggio, il suo sequestro attivava anche una dimensione spionistico-informativa. E fu proprio quella a trasformarlo in un caso internazionale, a trasformare una storia italiana in una vicenda che attrasse l’attenzione dei servizi e delle cancellerie dei principali paesi del mondo».
La dinamica dell’operazione, secondo lo storico, si articolò in quattro fasi. La prima, la strage della scorta, che richiedeva capacità militare e logistica, ma non necessariamente intelligenza strategica. La seconda, il rapimento, imponeva invece capacità gestionali di un ostaggio ordinarie (la vivandiera, il carceriere, la staffetta, le telefonate minatorie), ma delle modalità propagandistiche più raffinate. Perché implicava una terza fase: appunto, la raccolta spionistico-informativa delle notizie sensibili, cioè l’«interrogatorio» a cui fu sottoposto il prigioniero per strappargli notizie riservate sul mondo politico ed economico-finanziario italiano, segreti Nato o, magari, sulla politica mediterranea del nostro paese. La quarta fase, infine, la gestione dei documenti del «processo» e la distruzione della stessa moralità personale e politica di Moro agli occhi dell’opinione pubblica. Insomma, aggiunge Gotor, «fu un’operazione di guerra psicologica: Moro doveva essere annientato e rimanere privo di eredi. Occorreva eliminare Moro e, insieme a lui, il suo disegno strategico degli ultimi vent’anni di allargamento delle basi popolari della democrazia italiana, prima con i socialisti, poi con i comunisti». Per questo motivo, spiega, l’intera operazione segnò il punto culminante e più complesso della «strategia della tensione» in Italia, cominciata con le bombe alla fiera di Milano il 25 aprile 1969. Complesso perché saldò un fronte reazionario e un fronte rivoluzionario in una comune eterogenesi dei fini. Quindi non necessariamente in modo organico, diretto, strutturale e organizzato, anzi. Erano due eserciti, per Gotor, che si osservavano e si infiltravano sin dal 1943-45, e convergevano su un medesimo obiettivo: soffocare, se necessario anche nel sangue, qualunque anelito riformatore, seppure di segno cautamente progressivo come quello di Moro.

 


Edizione di riferimento: Giovanni Fasanella, Il puzzle Moro, Chiarelettere editore 2018, pp. 338-339


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