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Jean-Paul Sartre. La parola e l’azione (di Fabio Libasci)

Jean-Paul Sartre. La parola e l’azione

di Fabio Libasci

 

Scrittore, filosofo, drammaturgo: Sartre è stato tutto questo e molto altro ancora nei suoi quasi settantacinque anni di vita; è stato uomo di parola e di azione: l’intellettuale che meglio ha incarnato il suo tempo, colui che ha interpretato l’urgenza di agire attraverso la parola. La folla che segue i suoi funerali nell’aprile del 1980 deve avere chiaro il contributo dato alla società dallo scrittore, meno forse noi che ci apprestiamo a rileggerlo o conserviamo di lui un ricordo scolastico un po’ sbiadito fatto di parole d’ordine come impegno o di gesti eclatanti come il rifiuto del premio Nobel nel 1964.
Dalla pubblicazione di La nausea nel 1938 alle grandi manifestazioni del ’68, dalla redazione di Les Temps modernes alla direzione di La cause du peuple, Sartre ha rappresentato la disponibilità dell’intellettuale nel sostenere le più diverse battaglie, soprattutto una, fondamentale: quella della libertà. Negli anni della seconda guerra mondiale, gli stessi nei quali la storica Gallimard ospita scritti pro-tedeschi sotto l’egida di Pierre Drieu La Rochelle, Sartre rappresenta la resistenza, l’azione attraverso la parola, l’appello all’integrità morale; in una manciata di anni, mentre la Francia resiste al nemico, pubblica opere come L’essere e il nulla, L’età della ragione, Le mosche e poi subito dopo il lungo saggio Che cos’è la letteratura nel quale delinea la figura dello scrittore impegnato, in situazione col proprio tempo. Nasce definitamente la letteratura impegnata, esistenzialista e una volta creata la parola la moda è alle porte. Verrà dopo la moda esistenzialista, la canzone e il cinema. Verranno le polemiche causate anche dalla sua vicinanza al Partito comunista francese dal quale comunque si allontana criticandolo dopo i fatti d’Ungheria del 1956 pur restando marxista. Attorno a Sartre fiorisce un gruppo di sodali, la compagna Simone de Beauvoir che poco tempo dopo pubblicherà con molto fragore Il secondo sesso, Albert Camus che in seguito si allontanerà per divergenze politiche e soprattutto Jean Genet che sostiene con forza dedicandogli il lungo saggio Saint Genet, comédien et martyr. Negli anni cinquanta la sua posizione si consolida; in Francia esiste un partito Sartre e uno contro di lui ed entrambi sono fortissimi ma arriva pure la prima spaccatura. Albert Camus non credeva nella forza rivoluzionaria, nella violenza che avrebbe portato al comunismo e alla liberazione dell’uomo; al contrario Sartre sì e rimase marxista tutta la vita malgrado dubbi e ripensamenti. L’amicizia non si ricompose più e Sartre evitò accuratamente di commentare il premio Nobel dell’ex amico e la sua morte tragica avvenuta nel gennaio del 1960.
Sarte esistenzialista, Sartre marxista ma anche Sartre rive gauche, al bar; a decine le foto che lo ritraggono solo o in compagnia di Simone de Beauvoir ai tavolini del Deux Magots o al Café de Flore, suo vero quartier generale. Arrivava in tarda mattinata e vi restava a volte fino a sera tra molti caffè, burro e baguette, champagne e giornali, pipa e vino. Sartre era l’intellettuale da caffè prima che questa espressione diventasse disdicevole e offensiva; al caffè pensava e scriveva, riceveva e abbracciava idee nuove, osservava il mondo sfilare davanti a lui cogliendo i cambiamenti e le posture; Saint-Germain-des-Prés era la sua casa molto più del suo appartamento vicino la tour Montparnasse.
Dopo la difficile composizione della Critica della ragione dialettica la sua saluta comincia a deteriorarsi. L’uso di anfetamine che gli consentano di lavorare per molte ore di fila, l’alcool e il fumo minano il suo fisico; allo stesso tempo la sua figura pare passare di moda di fronte agli agguerriti nouveaux romanciers, agli strutturalisti tanto ammirati dagli americani. Poi, nel 1964 due eventi lo riportano in prima pagina: la pubblicazione dell’autobiografia Le parole e l’annuncio il 22 ottobre 1964 dell’Accademia di Svezia che intende conferirgli il premio Nobel. Cogliendo impreparati molti ma non i più fedeli, “sceglie” di rifiutare motivando in una lettera le ragioni: «Il mio rifiuto non è un atto di improvvisazione. Lo scrittore deve rifiutare di lasciarsi trasformare in istituzione, anche se questo avviene nelle forme più onorevoli, come in questo caso.» Sartre è così il primo scrittore a rifiutare l’ambito premio; prima aveva già rifiutato la Legion d’onore e il seggio al Collège de France. Sartre resta fedele a se stesso, alle parole e alle azioni che fin lì lo hanno guidato. Alla vigilia del ’68 Sartre rappresenta ancora l’uomo libero, in rivolta, che era stato durante la Seconda guerra mondiale, pronto a impegnarsi a fondo per sostenere le ragioni degli studenti, celebri le sue conferenze nella Sorbonne occupata, e poi quelle degli operai, dei detenuti, delle donne, degli stranieri, degli omosessuali, sempre in prima linea e all’avanguardia, prima di tutti, prima che la difesa dei diritti diventasse moda.
La stagione post ’68 regala a Sartre una nuova vitalità, l’occasione per ripensare il suo rapporto col partito comunista francese e il marxismo che adesso prova a superare da sinistra abbracciando il maoismo. Il ’68 come racconterà in seguito Simone de Beauvoir lo tocca profondamente; accetta di dirigere La cause du peuple rischiando la prigione e accetta addirittura di venderlo per strada, sicuro che la polizia francese non lo avrebbe arrestato. Sartre diventa il nuovo tipo di intellettuale, colui che si confonde nella massa e che accetta il proprio privilegio a patto di metterlo a servizio del popolo, diventa il più celebre oppositore del regime gollista e poi di Pompidou; moltiplica così i suoi interventi in favore dei palestinesi e dei diseredati del mondo, mette a disposizione la sua celebrità, la sua casa, la sua parola per sostenere le cause degli ultimi. L’attività politica instancabile non lo allontana dalla letteratura e tra il 1971 e il 1972 pubblica in tre volumi L’idiot de la famille, il monumentale studio su Flaubert: que peut-on savoir d’un homme? si chiede all’inizio del primo volume; che cosa possiamo sapere dell’autore di Madame Bovary, amato e disprezzato allo stesso tempo. Era previsto ancora un volume, il quarto, su Madame Bovary ma non venne mai pubblicato.
Dal settembre del 1970 la salute di Sartre si degrada ancora: accidenti vascolari, perdita progressiva della vista e dell’udito e il corpo tutto che man mano cede consegnandolo a una vecchiaia precoce e sfortunata. Molti progetti restano lettera morta e finisce per privilegiare le interviste, gli incontri, le petizioni, la parola immediata. Simone de Beauvoir parla di quegli anni, dieci, come di un cerimoniale degli addii, un lungo tempo che ha anticipato la fine come racconta nell’opera omonima, qualche scintilla ancora prima del silenzio nel quale si chiude la sua vicenda terrena. Del commovente ritratto dell’addio che ci offre Simone de Beauvoir vale la pena citare almeno la celebre frase con la quale lo saluta: «La sua morte ci separa. La mia morte non ci riunirà. È così; è già bello che le nostre vite abbiano potuto essere in sintonia così a lungo.» Dopo verrà il tempo delle polemiche, dell’eredità intellettuale ma non solo, del ruolo dei giovani discepoli come Victor e Gavi, dei silenzi carichi di responsabilità o di parole sbagliate. Accusato di non essere più lui, di essere trascinato su posizioni che non condivideva del tutto e di essere fin troppo lui.
I suoi funerali furono affollatissimi; gente comune, giovani soprattutto, qualche star come Yves Montand e Simone Signoret, l’assenza di Michel Foucault, la tristezza di chi lo aveva amato e piangeva la fine di un’epoca, e il senso di liberazione di chi lo aveva odiato, temuto o invidiato e sperava segretamente di diventarne l’erede. Tanti candidati ma nessuno in grado di assumere e riassumere così bene il proprio tempo, di impegnarsi nel profondo nelle battaglie più urgenti, di prendere posizione e sbagliare, esagerare anche. Michel Foucault rifiutò sempre il ruolo dell’intellettuale guida e in ogni caso morì prima di poterlo diventare davvero nel 1984 e Pierre Bourdieu lo divenne per pochi anni, anche lui stroncato da una morte prematura.
Il mondo qui raccontato con qualche superficialità sembra più vecchio di quel che è, tanto il paesaggio attorno a noi è cambiato, tanto le posizioni si fanno sfumate e i nemici invisibili o creati ad hoc; le idee durano pochi minuti e ogni giorno nascono e muoiono intellettuali da tastiera; i bar poi sono chiusi e l’editoria sembra dover morire dopo aver agonizzato a lungo, le idee sono troppo leggere e pochi credono, come ha fatto Sartre, di dover finire la vita in mezzo ai libri così come era cominciata. Pochi quelli che sentono il bisogno di rimettersi continuamente in questione, di sedersi ad ascoltare la voce di chi non sa, di chi non ha pensiero, in questo assai simile al nostro Pasolini. Quarant’anni dopo la sua morte i libri scritti cinquanta o sessant’anni fa possono essere invecchiati, il marxismo non è più di moda e il socialismo francese che trionfava un anno dopo la sua morte è ormai un ricordo lontano, ma appare ancora necessario ripensare con lui l’impegno, la responsabilità individuale dell’uomo di fronte all’uomo, la possibilità di scelta nei momenti difficili, la battaglia a fianco degli ultimi. Tutto ciò non è invecchiato né morto con lui e dimostrano quanto bene ci vedesse quest’uomo fattosi di colpo vecchio, piccolo e quasi cieco.

© Fabio Libasci

2 risposte a “Jean-Paul Sartre. La parola e l’azione (di Fabio Libasci)”

  1. Negli ultimi anni la voce della coscienza critica degli intellettuali è venuta meno, purtroppo. Lo scrittore è ” in situazione” nella sua epoca: ogni parola ha i suoi echi. Ogni silenzio anche, scrive Sartre in un passo dell’articolo della rivista ” Les Temps modernes (ottobre 1945) da lui stesso fondata. Grazie

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  2. Un grande maestro Jean Paul Sartre. Sempre coerente con se stesso.Aspettavo il suo ritorno, prima o poi. Mi ricordo “L’esistenzialismo è umanesimo”.
    Grazie, Fabio Libasci. Grazie Anna Maria.

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